La politica estera degli Stati Uniti. Le nuove sfide per la presidenza Obama.

Ho sempre avuto una sensazione, una convinzione, che questo continente è stato posto qui, tra i due grandi oceani, per essere trovato da gente di tutte le parti del mondo che avessero un pizzico in più di desiderio di libertà e un pizzico in più di coraggio di prender su e lasciare amici e concittadini e così via e venire in questo paese.

Ronald W. Reagan

In Europa negli ultimi anni si è seguito con sempre maggiore attenzione l’evolversi della lunghissima corsa verso le elezioni presidenziali americane. Ciò che cattura la nostra curiosità, al di là del fatto che intere generazioni di europei sono cresciute guardando i film, ascoltando la musica, consumando i prodotti e i servizi provenienti dagli USA e ragionando sulle idee elaborate nelle università americane, è probabilmente la peculiare modalità di svolgere la campagna elettorale, incentrandola in maniera preponderante sulle figure dei candidati. Niente di più diverso quindi dalle tradizionali campagne elettorali europee, che, fatta eccezione per alcune particolari circostanze, tendono a focalizzarsi molto di più sulla contrapposizione tra partiti piuttosto che su ciò che caratterizza il profilo individuale dei candidati. L’approfondimento degli aspetti più privati della vita dell’uomo politico, dalle relazioni amorose ai gusti in fatto di musica, dalle frequentazioni extrapolitiche ai rapporti familiari sono così normali negli Stati Uniti quanto sono anomale nel nostro continente. Si dice spesso che in America si voti per la persona ed in Europa per il partito: ciò sembra essere vero anche in un periodo, qual è l’attuale, in cui l’opinione pubblica americana è profondamente polarizzata, in conseguenza delle annose ed aspre lotte tra Repubblicani e Democratici. Ciò che colpisce ancor di più gli europei è il grande spettacolo che si crea attorno alle elezioni presidenziali statunitensi: abituati ai tradizionali metodi di propaganda, quali il megafono che dal tetto di un’auto chiama a raccolta gli elettori per un comizio, o i gruppi di giovani attacchini che di notte ricoprono i muri delle città, o ancora i cosiddetti santini con annessa foto in stile prima comunione, non possiamo che ammirare, con un pizzico d’invidia a volte, le spettacolari convention, il susseguirsi ininterrotto di spot televisivi girati in stile hollywoodiano, la cura maniacale dell’immagine, gli slogan degni delle migliori campagne pubblicitarie e…sì, se possiamo sommessamente dirlo, anche i dibattiti tra candidati, molto più vivaci e sicuramente meno asettici di quelli che si sono (e, recentemente, non si sono) visti negli ultimi tempi in Italia.

Fatta questa premessa sui motivi che ci hanno solleticato a seguire la campagna 2008, ai quali in ultimo aggiungerei la naturale propensione a schierarci e a dividerci su qualsivoglia argomento, passiamo ora ad analizzare i motivi più squisitamente politici che dovrebbero spingerci ad interessarci delle idee del prossimo inquilino della Casa Bianca, ovvero le scelte che egli adotterà e che avranno immediate ripercussioni sulla vita dei cittadini europei.

Tralascerò in questo mio intervento gli evidenti vincoli tra l’economia statunitense e quella dell’Unione: la tempesta che in questi giorni sta sconvolgendo i mercati finanziari di tutto il mondo rende palese la strettissima connessione tra l’economia americana e quella europea. Ciò che accade al di là dell’oceano si trasmette in tempo reale nel vecchio continente; le soluzioni adottate dal governo americano sono destinate a produrre i loro effetti anche in casa nostra.

Dedichiamoci quindi alle politiche del presidente degli Stati Uniti che maggiormente possono interessare chi negli Stati Uniti non vive, ovvero quelle di politica estera.

In un brillante saggio di alcuni anni fa, Walter Russel Mead rilevò che il pensiero statunitense, quanto a politica estera, è stato relativamente stabile nel corso dei secoli. Individuò quattro modi fondamentali di guardare alla politica estera, quattro scuole di pensiero che hanno dato forma al dibattito sulla politica estera americana dal XVIII al XXI secolo, da George Washington a George W. Bush.

Mead battezzò queste quattro scuole con i nomi di quattro personaggi della storia americana: Alexander Hamilton, Woodrow Wilson, Thomas Jefferson ed Andrew Jackson.

Iniziamo quindi ad esaminare la prima di esse, quella hamiltoniana, che considera come compito primario del governo degli Stati Uniti favorire la buona salute delle imprese americane, in patria e all’estero. Storicamente, gli hamiltoniani sono stati dei sostenitori dell’ordine mondiale britannico, fondamentale proprio per la salvaguardia degli interessi dei mercanti e degli investitori americani. Con la fine dell’impero britannico, hanno sostenuto che gli Stati Uniti dovessero sobbarcarsi il compito di sostituire la Gran Bretagna nel mantenimento di tale ordine. Fra gli hamiltoniani più noti possiamo ricordare Theodore Roosevelt, Henry Cabot Lodge sr., Dean Acheson e George H.W. Bush.

La seconda scuola, che prende il nome da Woodrow Wilson, ma che è diffusa da ben prima della nascita del ventottesimo presidente, è caratterizzata dal pensiero centrale che gli Stati Uniti abbiano il dovere, morale e concreto, di esportare i propri valori nel resto del mondo. “La causa dell’America è la causa di tutto il genere umano”, diceva Benjamin Franklin ai tempi della Rivoluzione. Questa concezione ha radici molto profonde nella cultura americana ed è stata influenzata nel corso della storia dalle attività e dalle pressioni lobbistiche dei missionari americani. I wilsoniani sono molto più interessati agli aspetti morali e giuridici dell’ordine mondiale che a quelli economici, cari agli hamiltoniani: ritengono infatti che gli interessi americani richiedano, per meglio essere realizzati, che gli altri paesi vi si conformino ed agiscano di conseguenza. Convinti che le democrazie costituiscano partner migliori e più affidabili delle monarchie e delle tirannie, i wilsoniani sostengono la diffusione della democrazia nel mondo, a volte, bisogna dire, anche con mezzi non esattamente pacifici. Allo stesso tempo però il secondo obiettivo strategico della scuola wilsoniana è proprio la prevenzione della guerra.

Finora abbiamo descritto due approcci alla politica estera piuttosto comprensibili per noi europei. Il pensiero hamiltoniano e quello wilsoniano sono infatti incentrati su valori universali, ed entrambi prevedono che gli Stati Uniti debbano edificare un ordine internazionale e insieme sviluppare concessioni e modifiche al loro interno affinché quell’ordine venga mantenuto. La scuola jeffersoniana e quella jacksoniana invece, per quanto sarebbero indubbiamente felici se il resto del mondo diventasse più simile agli Stati Uniti, rigettano l’idea che siano gli Stati Uniti a doversi adattare meglio al resto del mondo.

Veniamo quindi alla terza scuola, quella dei jeffersoniani. Essa ritiene che l’interesse più pressante e vitale degli Stati Uniti sia la conservazione della democrazia americana, bene prezioso quanto vulnerabile, in un mondo pieno di pericoli. Per fare ciò, i jeffersoniani ricercano il metodo meno costoso e rischioso, raccomandandosi allo stesso tempo contro i tentativi di imporre i valori americani ad altri paesi, sconfinando spesso nell’isolazionismo. Evitare la guerra, fonte di destabilizzazione interna, oltre che di inutili perdite in termini di vite umane e di beni economici, è la prima preoccupazione dei jeffersoniani in politica estera: politica estera che deve essere condotta secondo i dettami della Costituzione, con tutto il sistema di contrappesi al potere esecutivo che per le altre scuole è spesso soltanto motivo d’impiccio. In tale corrente di pensiero possiamo includere alcuni dei più eccellenti ed autorevoli pensatori della storia americana, uomini del calibro di John Quincy Adams e George Kennan.

L’ultima scuola prende il nome da Andrew Jackson, settimo presidente degli Stati Uniti. La scuola jacksoniana rappresenta una cultura dell’onore, dell’indipendenza, del coraggio e della fierezza militare ben impressa, largamente diffusa e popolare tra il popolo americano. Sospettosi nei riguardi di un potere federale illimitato, scettici sulle proposte buoniste in politica interna ed estera, contrari alle tasse federali ma favorevoli ai programmi di aiuto alla classe media, spesso populisti, i jacksoniani per certi aspetti assomigliano ai jeffersoniani. Li accomuna anche la spassionata devozione nei confronti della Costituzione e della Dichiarazione dei Diritti. Mentre però i jeffersoniani sono più devoti al Primo Emendamento, che protegge la libertà di espressione e proibisce un’imposizione religiosa da parte federale, i jacksoniani considerano il Secondo Emendamento ed il diritto di portare armi come i veri baluardi della libertà.

Se ci fermassimo a considerare la politica estera americana solo nei termini del realismo commerciale hamiltoniano, della crociata moralistica wilsoniana e del duttile pacifismo jeffersoniano, resteremmo interdetti di fronte al curriculum bellico degli Stati Uniti. Tralasciare questa componente jacksoniana non ci permetterebbe di capire l’altissimo numero di conflitti nei quali l’America si è battuta senza risparmio di energie e risorse.

Queste quattro scuole non sono gruppi separati, in cui il singolo individuo viene classificato con uno e un solo cartellino: è raro che uno statista o che i cittadini comuni siano totalmente avvolti dalle idee e dai valori di una sola di queste scuole. La maggior parte degli americani mescola diversi elementi di diverse scuole nella sua formazione. Le discussioni sulla politica estera americana, anche quelle tra neocons e liberal, sono più delle contese di famiglia, di una stessa famiglia. Le cose buone e quelle cattive che provengono dalla politica estera americana non sono il frutto di un’America buona e di una cattiva, ma della stessa America, della sua volontà di accumulare potere, della sua ambizione e del suo senso dell’onore, della sua instancabile volontà di difendere i propri principi, della sua insoddisfazione per lo status quo, della sua convinzione nella possibilità di cambiamento.

Proprio in riferimento a queste caratteristiche, che io definirei qualità, della politica estera americana, spesso gli Stati Uniti sono stati e sono tuttora considerati un paese pericoloso. Certamente, non si può dire che l’America sia la nazione che mantiene la pace nel mondo: piuttosto si può affermare che essa mantiene un certo ordine, quello che riflette i propri valori e la propria visione e che, personalmente, continuo a ritenere il migliore o sicuramente quello preferibile oggi come negli ultimi sessant’anni. Posta questa premessa, l’America allora è veramente una nazione pericolosa, ma lo è per chi non condivide tali valori e tale visione.

All’inizio degli anni novanta del secolo scorso, il collasso dell’Unione Sovietica e del sistema che per quarantacinque anni aveva diviso il mondo in due sembravano condurre ad una nuova era di convergenza globale, ad un comune interesse per un’integrazione politica ed economica. Come affermato da Francis Fukuyama in un celeberrimo libro, “alla fine della storia, non restano più dei seri avversari ideologici alla democrazia liberale”. Come si comportarono dunque gli Stati Uniti? Ammorbidirono le proprie maniere? Allentarono la presa sul potere internazionale? Si ritirarono almeno un po’ dalla scena mondiale? A tutte queste domande dobbiamo rispondere con un no. Alla fine della guerra fredda gli Stati Uniti spinsero sull’acceleratore. Sotto le amministrazioni di George H. W. Bush e di Bill Clinton estesero e rafforzarono le proprie alleanze fino all’Asia Centrale ed al Caucaso, riempiendo i vuoti lasciati dai sovietici e provando ad instaurare, dove possibile, il tipo d’ordine democratico basato sul libero mercato che gli Americani preferiscono. Diminuirono la spesa militare, ma svilupparono nuovi sistemi d’arma così avanzati da porre gli Stati Uniti in una speciale categoria di superpotenza militare, con la conseguente inclinazione ad utilizzare tale forza in varie occasioni, dagli interventi umanitari in Somalia ed in Kosovo ai cambi di regime a Panama e in Iraq. Fra il 1989 ed il 2001 gli Stati Uniti hanno usato la forza in territori stranieri più frequentemente che in ogni altro periodo della propria storia – una media di una nuova azione militare ogni sedici mesi. Una politica espansiva che rientra nella tradizione della politica estera americana. Fin dalla Seconda Guerra Mondiale, quando, come gli Americani sostengono, gli Stati Uniti sono intervenuti per salvare il mondo dall’autodistruzione, un principio guida della politica estera americana è stato che nessun altro sia in grado di preservare la sicurezza del mondo e della democrazia. Allo stato dell’arte, tendo ancora a dar loro ragione. “Ci ergiamo in alto e vediamo più lontano nel futuro rispetto alle altre nazioni”. Parola di Madeleine Albright, Segretario di Stato di Clinton.

L’illusione della “fine della storia” come tutti sappiamo, durò ben poco. I sistemi democratici, dopo la lunga sfida con il comunismo, si trovano ora a confrontarsi con nuovi contendenti.

Prendiamo innanzitutto il caso della Russia, che fin dalla metà degli anni novanta ha adottato un sistema politico che prevede l’accentramento delle decisioni più importanti in un unico uomo e nei suoi fidati collaboratori. Dopo la debolezza dei primi anni seguenti il crollo del regime sovietico, con Putin si è cominciato a teorizzare che solo una Russia grande e potente fosse in grado di difendere i propri interessi e di resistere alle spinte di cambiamento provenienti dall’esterno, in particolare dall’Occidente.

Anche la Cina ha intrapreso una strada simile. Dopo gli episodi di Piazza Tienanmen e le pressanti richieste di apertura verso il sistema politico liberale, il governo si è mosso verso un consolidamento dell’autocrazia piuttosto che verso una sua riforma.

La presunzione che, una volta smesso di credere nel comunismo, i governanti russi e cinesi si sarebbero trovati a non credere in nulla, si è rivelata naturalmente errata. Essi infatti credono in un forte potere centrale e rifuggono il sistema democratico occidentale, considerandolo causa di inaccettabile debolezza.

Negli ultimi due decenni un altro fattore ha contribuito al deterioramento dei rapporti tra democrazie da una parte ed autocrazie dall’altra. L’opinione diffusa in Occidente, sulla quale tra l’altro le due sponde dell’Atlantico si sono trovate straordinariamente vicine, che la Comunità internazionale avesse il diritto ed il dovere di intervenire nei confronti di Stati sovrani colpevoli di abusare dei diritti dei propri popoli, direttamente tramite le organizzazioni internazionali, o indirettamente tramite le ONG, si è venuta a scontrare con il sistema del diritto internazionale che fino a quel momento aveva difeso qualsiasi Stato dall’altrui ingerenza negli affari interni. La guerra in Kosovo del 1999 ha probabilmente disturbato la Russia e la Cina molto più di quanto possa aver fatto quella in Iraq nel 2003. Mentre le democrazie occidentali stanno propugnando un indebolimento della sovranità nazionale in nome della protezione dei diritti umani, le autocrazie stanno promuovendo un ordine internazionale che dia maggiore risalto alla difesa della sovranità nazionale ed alla protezione dalle ingerenze esterne. Quando oggi i russi parlano di mondo multipolare, non parlano soltanto di una ridistribuzione del potere, ma anche di una nuova contrapposizione di idee e valori. Le grandi potenze tendono oggi a schierarsi: India e Giappone l’hanno già fatto, rafforzando negli ultimi anni i loro rapporti con le democrazie occidentali, naturalmente spinte anche da altre ragioni strategiche di competizione con la Cina. Tale divisione è spesso resa palese nelle maggiori questioni affrontate in seno al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, nel momento in cui le democrazie premono per l’applicazione di sanzioni o censure nei confronti delle autocrazie in Iran, Sudan, Corea del Nord, Birmania, e Russia e Cina si oppongono o cercano di svuotare di significato le misure richieste.

Possiamo provare ad immaginare come si porranno gli Stati Uniti del presidente eletto Barack Obama nei confronti di queste sfide e di quelle cui ancora non abbiamo accennato, ma che domineranno naturalmente l’agenda politica dei prossimi anni.

Nei giorni immediatamente seguenti il conflitto in Georgia, Obama si è pronunciato in maniera molto decisa, proponendo di dare un supporto non solo morale, ma anche finanziario alla giovane democrazia guidata da Sakashvili, in contrapposizione alla Russia di Medvedev. L’allora candidato del Partito Democratico si è spinto più in là, proponendo di estendere le stesse misure protettive anche agli altri paesi dell’ex blocco sovietico, quale l’Estonia, vittima nei mesi precedenti di un importante attacco informatico. Si vedrà se poi alle parole seguirà nei fatti un atteggiamento così fermo nei confronti della Russia. Al momento, considerando che il prossimo Segretario di Stato sarà Hillary Clinton e che in campagna elettorale la senatrice aveva definito Vladimir Putin un “uomo senz’anima”, le premesse non sembrano essere le migliori.

In merito alla difesa dei diritti umani, Obama ha definito interesse nazionale degli Stati Uniti intervenire ovunque avvengano massacri e genocidi, spingendo la comunità internazionale a farsi carico delle situazioni nelle quali l’intervento americano fosse impossibile per carenza di risorse. Un approccio piuttosto wilsoniano.

Veniamo ai due scenari che maggiormente impegnano gli Stati Uniti, sia militarmente che economicamente. Mentre in Iraq la strada del disimpegno è tracciata dagli accordi firmati dall’amministrazione Bush e dal governo al-Maliki, l’Afghanistan sarà il vero banco di prova dell’amministrazione Obama. Durante la campagna elettorale, nei pochi momenti in cui si è parlato di politica estera e di sicurezza, il presidente eletto ha sempre affermato che il Pakistan e l’Afghanistan fossero molto più cruciali dell’Iraq per gli interessi degli Stati Uniti e che proprio in quei paesi si sarebbero dovuti concentrare gli sforzi per la sicurezza americana, arrivando perfino a paventare delle incursioni nel territorio dell’alleato Pakistan in caso di necessità.

Altra importante e delicata questione che la prossima amministrazione dovrà affrontare sarà quella relativa all’Iran. Nel corso del 2008 Obama ha sempre sostenuto la necessità di proseguire negli sforzi diplomatici volti a far desistere la repubblica islamica dal proprio programma nucleare. E’ arrivato perfino a prospettare la possibilità di intavolare un negoziato diretto, sebbene Stati Uniti ed Iran non abbiano rapporti diplomatici ufficiali dai tempi della rivoluzione komehinista. Bisogna stare a vedere se il moltissimo tempo perso, gli anni di sterili negoziati e la prospettiva di un Iran pronto ormai a fabbricare un ordigno nucleare entro il 2009, faranno mutare atteggiamento a Obama ed al suo staff.

Abbiamo accennato solo ad alcune delle sfide che gli Stati Uniti dovranno affrontare nell’immediato futuro. Per capire come Obama le affronterà possiamo provare a partire dalla squadra di politica estera e di difesa. La scelta di Hillary Clinton come Segretario di Stato è sicuramente quella più muscolare e falca che potesse fare, apprezzata anche da molti repubblicani che riconoscono alla senatrice newyorchese di non essere certo una morbida liberal pacifista. Suo vice dovrebbe essere James B. Steinberg. Ex membro del Consiglio di sicurezza di Bill Clinton, favorevole alla guerra in Iraq, Steinberg è sostenitore della tesi che “malgrado saranno in molti a salutare con sollievo l’apparente fine della guerra preventiva, sarebbe un errore se l’intero concetto fosse abbandonato”. Ancora più indicative sono le scelte riguardanti la squadra di sicurezza nazionale. Al Dipartimento della Difesa rimarrà Bob Gates, scelto da Bush per sostituire Rumsfeld. Il direttore dell’Intelligence nazionale, invece, dovrebbe essere l’ex ammiraglio Dennis Blair, esperto di Cina e Russia, già al comando con Bush delle operazioni militari nel Pacifico, dove ha elaborato una strategia antiterrorismo considerata efficace contro i gruppi islamici del sud-est asiatico. L’uomo chiave sarà invece il Consigliere per la Sicurezza Nazionale. Per questa posizione Obama ha scelto il generale dei Marines a riposo James Jones, ex comandante supremo delle forze Nato in Europa, amico da una vita di John McCain, che probabilmente lo avrebbe scelto per lo stesso ruolo. Stimato da entrambi gli schieramenti, Jones è convinto che le truppe americane debbano restare in Iraq e che ritirarsi sarebbe “contrario ai nostri interessi nazionali”, ma crede che il cuore della battaglia contro al Qaida sia l’Afghanistan e pensa che Guantanamo vada chiuso subito, soprattutto per una questione di immagine internazionale, e che si debba trovare il modo di confrontarsi con i nemici, oltre che con gli amici. L’impressione è che, mentre Obama, forte del vastissimo consenso internazionale che la sua elezione ha suscitato, utilizzerà questo entusiasmo per sfruttare quello che Joseph S. Nye chiama “soft power” (la capacità di affascinare, di attrarre e di portare dalla propria parte gli interlocutori) e per ridare lustro all’immagine un po’ appannata degli Stati Uniti nel mondo, il suo team farà la parte del poliziotto cattivo impostando una politica estera molto realistica, pragmatica, muscolare quando serve, sicuramente non ideologica, a differenza della tradizione wilsoniana di molti presidenti democratici del passato.

In conclusione, se in Europa qualcuno si aspetta una politica estera di completa rottura con quella di Bush, basandosi sull’immagine “cool” di Obama, si troverà spiazzato da una semplice constatazione: tutto cambia, niente cambia.
Laureato in Giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Parma con tesi in Diritto Amministrativo dal titolo: “La Denuncia di inizio attività edilizia e la tutela del terzo”, Francesco Tomicich ha frequentato il corso post laurea “L’efficienza nella selezione delle risorse umane: aspetti metodologici e normativi” presso il Consorzio Area di Ricerca Scientifica e Tecnologica di Trieste.Ha tenuto in qualità di ospite alcune lezioni di Legislazione edilizia e Diritto Urbanistico presso la facoltà di Architettura dell’Università degli Studi di Trieste. Fa parte della Commissione di gestione della Biblioteca Civica di Trieste. Lavora per la Express scrl come responsabile di un laboratorio informatico e impiegato front office presso l’Università degli Studi di Trieste.

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