La fiera sacralità nera delle donne sarde

Vittorio Sgarbi, che conosce le donne sarde evidentemente meglio di Massimo Fini, risponde all’articolo con cui il giornalista, su Il Giornale, oltre ad aver disprezzato, evidentemente senza conoscerla, la cultura dell’Isola, ha fatto un ritratto deprecabile e caricaturale delle sarde descritte con tono di sdegno come vestite di nero e schiamazzanti. La risposta rende merito alla fierezza delle donne della mia terra sacra di cui siamo incarnazione viva. Lo fa citando parte delle descrizioni che l’arte e la letteratura hanno fatto di noi e gliene diamo merito con gratitudine. Ho solo un appunto. Sulla chiosa. Ha ragione dicendo che, alla scena descritta da Fini, una donna sarda avrebbe risposto col silenzio. Avrebbe detto molte cose con lo sguardo, semmai, ma non certo le cose che Fini dice di aver sentito. Ma non è vero, come dice Sgarbi, che il nero non ci si addice.

Il nero è il nostro (non) colore, invece, perché nera è la Madre Terra feconda dove i semi, nella morte apparente dell’inverno, trovano nutrimento e vita; nera è l’oscurità delle Domus de Janas, dove celebravamo il culto della Grande Dea e la rinascita della vita e della natura dopo la morte; nera è l’ossidiana generata da antichi vulcani nel cuore dell’Isola che scultori sciamani trasformano in Dee Madri; nere sono le Madonne venerate e invise che celebriamo conservando memorie delle antiche Dee perché nere erano anche Lilith e Inanna, amorevoli e terrifiche.

Tutta la dicotomiatra il bene e il male delle oscure e ancestrali Madri splendenti è stata annientata da modelli religiosi e sociali di donne solo buone, luminose e accondiscendenti, ma noi conserviamo una memoria più antica. La conserviamo nel nostro sangue, nel nostro spirito indomito, nelle nostre leggende di donne amorevoli e anche terrifiche, come le janas che davano tesori o sciagure, o le accabadore, che erano anche levatrici e davano vita e morte; la conserviamo nel nostro sguardo, nei silenzi che tagliano come lame e anche nelle gonne della nostra tradizione. Gonne con tasche segrete dove conservavamo amuleti. Gonne ampie che si adattano al cambiamento del corpo durante la vita, senza costringerci all’immobilismo del modello estetico del momento, ma accettando una femminilità vera e autentica del corpo mutevole.

Gonne nere. Nere come il nostro carnevale che celebra la morte e rinascita della natura con riti che manifestano tutta la potenza di cui abbiamo ancora consapevolezza perché, in una terra dove “io” e “Dio” sono la stessa parola (deu), noi sappiamo riconoscere la nostra sovrana sacralità. Nera.
La scrittrice sarda Grazia Deledda, unica donna italiana ad aver ricevuto il premio Nobel per la letteratura, con questa fierezza nera, proprio nel brano che Sgarbi ha riportato, ha descritto chi siamo.
«Siamo uno strano popolo. Siamo abituati al silenzio, al vento ed al fuoco, a guardare il mare seduti sul monte e parliamo al sacro senza usare parole. La paura è un fatto privato, nessuno sa cosa temiamo. Non abbiamo re, ma solo regine e il dio è Padre e Madre. Il Sole e la Luna sono figli del vento e siamo soli davanti a Dio. La Morte ci cammina dentro, moriamo ogni notte e ogni giorno rinasciamo e l’astore e la volpe sono i nostri maestri. La vendetta e il perdono ci vengono insegnati già nei primi anni e, ancora bambini, sappiamo che bisogna tacere. Le nostre notti sono buie, ma le ali dei demoni che nascondono il Sole non ci fanno paura e le janas sono solo le custodi della notte».
Siamo fieramente nere.

Fonte: 27esimaora.corriere.it

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