Un sorriso. Il primo, dopo 15 giorni e 15 notti. E poi quell’abbraccio forte, caldo, avvolgente mentre le lacrime mi bagnavano le guance e la barba incolta. Quindi poche parole, dolci, quasi pronunciate con un soffio. “Bentornato. Ho lottato per strapparti alla morte, per convincere Dadullah a non tirare fuori il coltellaccio del suo fodero”. Gino Strada, ora che non c’è più, lo ricordo così. Un leone. Vulcanico, con la testa piena di idee e progetti, umorale, intenso. Nervoso e autoritario. Gli occhi che esprimevano un’intelligenza fuori dal comune. Coraggioso, altruista e insieme egoista. Ma anche scaltro, capace di muoversi tra due fuochi. Era nato per questo: curava e salvava le vittime delle guerre. Ovunque nel mondo. Era un medico, un chirurgo. Ma era soprattutto un combattente. Scomodo e anche utile. Non aveva remore. Ti affrontava e ti sommergeva con le sue idee. Diretto e insieme ambiguo. Nelle zone dei conflitti dove saltano tutte le regole bisogna essere così.
“Ti dirà tutto Gino”, mi ripete all’infinito Rahmatullah Anefi, il responsabile logistico dell’ospedale di Emergency a Lashkar Gah, l’uomo che mi è venuto a raccogliere nel profondo sud dell’Helmand. L’unico che aveva avuto la forza e il coraggio di incontrare i talebani del mullah Dadullah nella loro terra, sulle sponde del fiume che prende il nome dalla regione meridionale dell’Afghanistan. Lo ascoltavo a fatica. Tremavo, mi guardavo attorno ancora pieno di paura e di sospetti. Tremavo e piangevo. Avevo imparato a diffidare di tutto e tutti. Perfino di quest’uomo che in mezzo ai Telabani che sparavano raffiche di kalashnikov in aria per accogliere i prigionieri da scambiare con me e il mio collega afgano Ajmal, mi prende per mano e mi sussurra: “Andiamo, meglio andare adesso. Tranquillo, sono un amico, sono di Emergency”. Solo allora capisco chi aveva trattato la nostra liberazione. Avvolto in una bolla che mi isolava dal mondo, senza parlare e capire una sola parola di pasthu, cercavo di immaginare come si sarebbe svolto il rilascio che i nostri carcerieri ci avevano annunciato quasi con gioia, rompendo a sassate le catene che ci bloccavano le caviglie. Avevano perso le chiavi dei lucchetti nel deserto. Ma la fine di questo incubo rendeva tutto una festa.
I miei dieci anni da sopravvissuto con in testa l’incubo dell’Afghanistan
Daniele Mastrogiacomo
19 Marzo 2017
“Cosa è successo, che fine ha fatto Ajmal, dove stiamo andando, siamo ancora in pericolo?”. Bombardo di domande Anefi che ho lo sguardo fisso sulla pista del deserto mentre guida la Toyota con le insegne di Emergency. Dallo specchietto si accorge che piango. Mi prende la mano, la stringe, mi incute coraggio e protezione. Si guarda attorno. Ci sono le altre macchine degli helder, i capi tribù, che garantiscono il passaggio nei loro territori. Anefi non lo dice ma sa che sono ancora nel mirino di altri gruppi di talebani. Hanno provato più volte a strapparci ai nostri rapitori. Bottino ghiotto. Nell’Helmand non si parlava d’altro, verrò a sapere una volta libero. Ci riusciranno con Ajmal che nel frattempo viaggiava su un altro convoglio. “Ti dirà tutto Gino”, ripete l’uomo di Emergency. Poi aggiunge: “Ho lavorato duro per tirarti fuori. Rischio molto. Non volevo farlo ma l’ho fatto per Strada. Gli devo tutto”. Rahmatullah pagherà un duro prezzo per aver trattato la nostra liberazione: resterà in cella per sei mesi, tra torture e lunghi interrogatori. Lo accuseranno di aver consegnato Ajmal ai talebani.
Arriviamo dopo un viaggio di sei ore. E’ già buio. Riconosco a fatica il compound di Emergency a Lashkar Gah. Gino Strada è sulla porta d’ingresso. Ha la barba bianca che gli circonda il viso. Gli occhi sono vispi, emozionati, pieni di lacrime. Mi viene incontro. Mi abbraccia, mi stringe forte. Lo stringo forte anche io: ho bisogno di affetto. Gli dico solo più volte: “Grazie, grazie per quello che hai fatto”. Lui scuote la testa. “E’ stata dura ma ci siamo riusciti. Adesso riprenditi. C’è mezzo mondo che ti cerca. Tu fai quello che devi fare”. Sono bloccato, gli chiedo notizie, aggiornamenti. Lui resta sul vago mentre Gina, la sua assistente assieme agli altri del compound mi toccano, mi abbracciano, mi accarezzano, mi mettono delle gocce tranquillanti negli occhi.