Ecco perché l’esercito di Kabul si è dissolto

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Oggi il mondo si interroga sulla velocità dell’avanzata talebana, che non sembra incontrare resistenza. E viene da chiedersi: l’America e l’intera Nato hanno fatto peggio dell’Unione Sovietica? Dopo la ritirata dell’Armata Rossa le truppe governative hanno tenuto testa per quasi tre anni ai mujaheddin fondamentalisti. Quando nel 1989 la guerriglia tentò di conquistare la prima grande città, Jalalabad, venne respinta con gravi perdite: l’esercito e l’aviazione – addestrate dai russi ma composte di soli afghani – misero in campo tattiche efficaci, utilizzando persino centinaia di missili Scud.

La notte più nera di Kabul: “Per noi è finita”

di

Francesca Mannocchi

15 Agosto 2021

Quei soldati erano coscritti, obbligati alla leva e reclutati quasi interamente nelle zone urbane. Molti disertavano, ma una quantità significativa ha combattuto con determinazione. Perché? Il regime guidato da Mohammad Najibullah era riuscito a creare un blocco sociale coeso contro un nemico comune. Gli aiuti distribuiti dall’Urss avevano finanziato una borghesia piccola e media di burocrati, funzionari, insegnanti, tecnici e militari, tutti nelle città che nel decennio di occupazione russa non sono mai state minacciate dai mujaheddin. I sovietici li hanno fatti studiare nelle loro università ed accademia, riservandogli un buon tenore di vita e una bolla di sicurezza che dalla capitale si estendeva ai centri principali. E la propaganda di Najibullah, ex capo dei servizi segreti cresciuto alla scuola del Kgb, li aveva convinti che stavano lottando contro una potenza esterna: il Pakistan, che tramite i mujaheddin voleva conquistare il Paese. Un’ideale nazionalista che aveva maggiore appeal degli slogan socialisti ed era riuscito a fare presa sulla classe dirigente, soprattutto sulla casta degli ufficiali, rimasta al suo posto dai tempi della monarchia.

Durante l’intera occupazione, gli emissari di Mosca si sono preoccupati di verificare che gli enormi finanziamenti elargiti a Kabul venissero distribuiti a tutti i livelli, cementando così consenso: la stessa linea adottata poi da Putin in Cecenia per pacificare la regione ribelle. Non è che non ci fosse corruzione: ma era una “corruzione sostenibile”, che non doveva minare il sostegno della borghesia e degli abitanti delle zone urbane. Il misto di aiuti e nazionalismo ha funzionato, permettendo fino al 1991 a Najibullah di mantenere il controllo delle città e di gran parte delle frontiere: solo dopo la crisi nel sistema russo innescata dal fallito golpe, sovvenzioni e rifornimenti sono scomparsi e l’apparato di potere si è sgretolato secondo schemi tribali, aprendo la strada ai signori della guerra. A quel punto ex generali governativi come Rashid Dostum o comandanti mujaheddin come Massud ed Hekmatyar si sono coalizzati per espugnare Kabul. E da quelle macerie è poi sorto – sotto la regia pakistana – il movimento talebano.

Gli Usa inviano più truppe in Afghanistan, ma solo per l’evacuazione. Biden non ci ripensa: il ritiro è definitivo

dal nostro inviato

Federico Rampini

15 Agosto 2021

Quanto ai militari, i russi avevano sfruttato l’esperienza delle missioni di addestramento nel Terzo Mondo – i celebri “consiglieri” spediti in Africa e Medio Oriente – cercando di adattare gli schemi dell’Armata rossa alla realtà locale: l’obiettivo era però quello di creare reparti completamente autosufficienti, in grado di gestire da soli pianificazione, manutenzione e logistica. Tre aspetti fondamentali che invece la Nato non è mai riuscita a trasmettere all’esercito e all’aviazione costituite negli ultimi vent’anni, mantenendo il controllo della pianificazione e affidando logistica e manutenzione ai contractor, ossia ex militari occidentali o arabi ingaggiati da società private. Inoltre i russi hanno valorizzato il carattere – risalente all’epoca monarchica – dell’Esercito come istituzione nazionale fedele al governo centrale, senza mai permettere la predominanza di componenti tribali o di generali con ambizioni golpiste.

Afghanistan, sostenitori dei Talebani festeggiano in piazza a Kandahar la presa della città

Certo, quello che invasero i sovietici era un Paese con istituzioni tutto sommato salde e di antica tradizione, mentre l’Afghanistan che hanno trovato le forze della Nato era stato raso al suolo dall’oscurantismo talebano, che aveva spazzato via o obbligato all’esilio tutti i ceti medi, cancellando apparato burocratico e istruzione. In vent’anni di impegno però l’intero Occidente non è riuscito né a ricostruire forze armate credibili, né a rivitalizzare un sostegno sociale verso il governo. E questo nonostante l’elargizione di aiuti di gran lunga superiori a quelli sovietici.

Paradossalmente, i finanziamenti in questi anni hanno accresciuto le divisioni del Paese: i fondi stati quasi completamente intercettati da una classe politica avida, che li ha trasferiti nei conti correnti delle banche emiratine o indiane. Questa cleptocrazia, invece che unificare il Paese, ha reso più larga la frattura tribale, perché è apparsa dedita a favorire solo i clan o i territori del singolo ministro, e ha inasprito il divario con i ceti poveri, soprattutto nelle città. La corruzione è stata denunciata più volte dagli ispettori statunitensi e adesso si rispecchia nella velocità con cui i talebani occupano tutto: la sfiducia nel governo di Kabul accelera rese e diserzioni.

Afghanistan, quello scontro sul ritiro che spaccò la Nato: Italia e Gb contro gli Usa

dai nostri corrispondenti

Antonello Guerrera

Claudio Tito

14 Agosto 2021

Anche l’esercito afgano è stato ricostruito da zero a partire dal 2002 ma si è sviluppato secondo una logica regionale: ogni nazione responsabile di una regione – l’Italia ad esempio nel Sud-Ovest, la Germania nel Nord-Ovest, americani e inglesi altrove – ha formato il proprio corpo d’armata. I soldati non erano più di leva, ma volontari in cerca di una paga e negli ultimi anni anche il carattere nazionale, che voleva uomini di etnie diverse nello stesso reparto, si è affievolito. I comandanti si sono poi abituati a considerare come loro referenti i responsabili della Nato, da cui ricevevano tutto, e si sono trasformati in una sorta di contro-potere sul territorio.

La Nato ha sempre fatto da balia a queste truppe, usandole come fanteria nelle operazioni anti-guerriglia, senza preoccuparsi che fossero realmente autonome. Ad esempio, non sono mai stati formati reparti d’artiglieria o di tank, inutili per presidiare campagne o montagne ma decisivi per difendere le città e che si rivelarono la chiave della sopravvivenza dei governativi dopo la ritirata dell’Armata Rossa. Ci sono state poi scelte discutibili, talvolta cervellotiche. Come la sostituzione dei kalashnikov con i fucili M16 statunitensi; armi di calibro diverso, più ingombranti e molto meno robuste. Ben 83 miliardi di dollari sono stati investiti dagli Usa per costruire il nuovo esercito nazionale.

Chi li ha visti in azione riconosce il coraggio dei soldati afgani, ma ogni loro operazione veniva pianificata dagli ufficiali dell’Alleanza atlantica che dovevano curare nei dettagli la logistica, ossia il fatto che agli uomini in battaglia arrivassero munizioni e cibo. Oggi infatti le cronache da Herat o Ghazni raccontano di battaglioni che si arrendono ai talebani perché non hanno più proiettili né razioni. Inoltre fino a tre mesi fa i militari di Kabul avevano una certezza: l’arrivo di bombardieri ed elicotteri americani o della Nato, che come la cavalleria nei film western li avrebbe tirati fuori dalle situazioni più drammatiche. Questa protezione è scomparsa perché la Nato ha ricostruito un’aviazione afghana con 130 aerei e istruito i piloti ma non i tecnici per tenere in funzione i velivoli: la manutenzione è stata lasciata agli stranieri. Partiti loro, le squadriglie sono rimaste a terra.

La questione fondamentale però non riguarda gli aspetti tecnici ma le motivazioni: 180 mila soldati e altrettanti uomini tra poliziotti e milizie territoriali che fino alla primavera sembravano capaci di difendere quantomeno le città, adesso si arrendono in massa. L’eroismo e l’orgoglio descritto dai militari italiani, che li hanno addestrati e hanno combattuto fianco a fianco con loro, si sta dissolvendo: “Non sanno per cosa devono lottare e in chi credere”, spiega un veterano delle missioni in Afghanistan. Una crisi che mostra tutta la fragilità di quello che gli Stati Uniti e i loro alleati, Italia inclusa, hanno realizzato negli ultimi vent’anni.

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