Da Pechino all’Iran, la fascinazione grillina per i regimi anti-Usa

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Era l’agosto del 2014. L’Isis seminava il terrore, i grillini in Parlamento non parlavano con nessuno e il deputato M5S Alessandro Di Battista propose di aprire un tavolo di confronto con i jihadisti. Pubblicò un post per dire che «dovremmo smetterla di considerare il terrorista un soggetto disumano con il quale nemmeno intavolare una discussione. Nell’era dei droni e del totale squilibrio degli armamenti il terrorismo, purtroppo, è la sola arma violenta rimasta a chi si ribella». Putiferio.
L’altro giorno – a margine della presentazione di un libro a Ravello – il capo politico dei Cinquestelle, Giuseppe Conte, ha auspicato «un serrato dialogo» con i talebani, che «appaiono, a parole, su un atteggiamento abbastanza distensivo». Ieri i talebani «abbastanza distensivi» hanno aggredito la giornalista della Cnn Clarissa Ward («copriti il volto!») e giustiziato un capo della polizia, Hajji Mohammed Achaksai, che li aveva combattuti.

Di Battista di fronte alle polemiche spiegò che «l’obiettivo politico dell’Isis, ovvero la messa in discussione di alcuni stati nazione imposti dall’Occidente dopo la guerra mondiale, ha una sua logica». La spiegazione è un concentrato di ideologia grillina, dove l’anti-atlantismo si mescola a un radicale sentimento anti-sistema tout court. Una spericolata visione di revanscismo anti capitalistico, di fascinazione per “i cattivi”, di sincera considerazione per autocrati, dittatori e teocrati.
Il tweet dell’ex ministro M5S Lorenzo Fioramonti la riassume bene: «Mentre l’ex presidente Ghani, sostenuto dall’Occidente, scappa portando fuori dal paese 5 milioni di euro in contanti (presumibilmente mazzette), il nuovo governo dei talebani annuncia no burqa sì istruzione per le donne. Sogno o son desto?». Traduzione: i talebani almeno non rubano.
È probabile che Conte abbia fatto quell’uscita per prosaiche ragioni interne. Per differenziarsi da Luigi Di Maio (che infatti l’ha subito corretto), uscendo dal conformismo e parlando così ai vari Di Battista, nella speranza che tornino a casa in un Movimento di lotta e di governo. L’humus è quello del post di Dibba. Del resto le relazioni pericolose M5S in politica estera sono storia. I grillini sono stati non insensibili al caudillo venezuelano Hugo Chavez e poi a Nicolas Maduro, che col pugno duro governa un Paese allo stremo. Secondo un’inchiesta del quotidiano spagnolo Abc Maduro avrebbe finanziato con 3,5 milioni di euro gli esordi grillini. Casaleggio smentì indignato.

M5S diviso anche sugli Esteri. Il peso dell’ala filo-cinese sulla linea “afghana” di Conte

di

Matteo Pucciarelli

20 Agosto 2021



Nel marzo del 2017 una delegazione M5S, guidata da Manlio Di Stefano, oggi sottosegretario agli Esteri, andò in Venezuela, dove incontrò sia la maggioranza che l’opposizione, perché, come precisò Di Stefano, «l’equidistanza e il dialogo sono i fari che stanno guidando la nostra visita». Equidistanza da un dittatore. Nell’estate successiva il Parlamento italiano condannò Maduro. «Il vostro gruppo al Senato – fece notare il pd Emanuele Fiano – è stato l’unico in aula a non prendere la parola. Come mai questo silenzio? Perché, al di là di una condanna a 360 gradi, non criticate specificatamente Maduro?». Quando Juan Guaidò si oppose Maduro, autoproclamandosi presidente, aprendo uno spiraglio di democrazia, fu riconosciuto dalle cancelliere occidentali. I grillini si dichiararono neutrali.

C’è poi il capitolo Cina. A giugno, proprio mentre il G7 criticava lo strapotere di Pechino, Grillo incontrò l’ambasciatore cinese a Roma, e Conte, solo in zona Cesarini, alluvionato dalle polemiche, si sottrasse a quell’abbraccio. Non è chiaro se l’ex premier si muove con il senso politico di un elefante in una cristalleria o se c’è un disegno che sfugge. La Cina è stata un’attrazione per molti, a cominciare da Di Maio, come dimostra l’accordo sulla via della Seta. E come dimenticare il suo entusiasmo per le mascherine giunte da Pechino, quando lodò il grande cuore del Dragone nei primissimi giorni della pandemia. Indimenticabile resta il viaggio da capopopoli Di Maio e Di Battista nel febbraio del 2019 (veramente Di Maio era già ministro) in Francia per incontrare uno dei leader dei gilet gialli, Christophe Chalençon, un signore che strizzava l’occhio alla violenza e alla guerra civile. Macron ritirò l’ambasciatore in Italia, una cosa che non accadeva dai tempi del fascismo, e c’è poi voluta la paziente tessitura di Sergio Mattarella per ristabilire i rapporti con Parigi. Poi anche Di Maio è cambiato.

E quindi c’è l’Iran, una teocrazia islamica. Di Battista è un avversario delle sanzioni, come ha scritto in un reportage per Il Fatto quotidiano: «L’Iran ha avuto il torto di non adeguarsi al sistema liberista e, per un Paese che detiene la quarta riserva mondiale di petrolio e, probabilmente, la prima di gas, ciò non è concesso». Anche Di Stefano vanta buoni rapporti con quel mondo. Ma il capo ultrà è Beppe Grillo: «Un giorno – disse in un’intervista al quotidiano israeliano Yedioth Ahronot – «ho visto impiccare una persona a Isfahan. Ero lì. Mi son chiesto: cos’è questa barbarie? Ma poi ho pensato agli Usa. Anche loro hanno la pena di morte: hanno messo uno a dieta, prima d’ucciderlo, perché la testa non si staccasse. E allora: cos’ è più barbaro?». Di Stefano flirtava pure col governo di Putin. Nel 2016 partecipò al congresso di Russia unita, il partito del leader. «Non abbiamo alcun mandato a giudicare le altre democrazie», disse una volta a Mosca. Neutralità.

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