Afghanistan, il primo sorriso dei bimbi in fuga da Kabul: “Ora siamo salvi”

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Una famiglia, un numero, un visto per una nuova vita. Tornare a respirare aria e non terrore. Intravedere un futuro. Herat è lontana, ormai. I vecchi sono sfiniti, dormono su un fianco per terra sopra pezzi di cartone, la mano chiusa a pugno usata come cuscino. I bambini non hanno sonno, troppe le emozioni del mondo nuovo. Allargano le braccia e fanno una pernacchia con la bocca per farti capire che a portarli qui è stato un grosso aereo che faceva tanto rumore. Lo hanno anche disegnato. Con le ali colorate di rosso e verde come la bandiera dell’Afghanistan e le nuvole azzurre che ridono. Come loro. Perché i talebani non ci sono più e non possono più fargli del male.

Il Terminal 5

Le 8.30 di sabato mattina, il Terminal 5 di Fiumicino, il primo pezzo d’Italia dove mettono piede i salvati. Nella sala di attesa delle partenze chiuse, tra il banco 521 e il banco 532 del check-in, 105 afghani aspettano di sapere cosa ne sarà di loro. Gli altri, i sommersi, stanno ancora a Kabul.
“Number thirty-four! Mister Qassem…!”, urla la soldatessa. Sta cercando Hamad Qassem, 45 anni, che ha il biglietto col numero 34. Gli deve dire che il fotosegnalamento è andato bene, nessun precedente vieta di rilasciare il visto per motivi umanitari. Il tampone è negativo, i documenti sono a posto. Potrà salire sul pullman con i cinque figli, la nonna Bibinoor e gli altri afghani atterrati a Fiumicino venerdì notte alle 23.05. Saranno portati a Cosenza per la quarantena di dieci giorni, poi finiranno nelle strutture delle prefetture e nelle case dei comuni. “Mister Qassem…!”, chiama ancora lei. Tutti si sono girati verso l’italiana in divisa mimetica. Atina no. È una bambina di 5 anni disabile aggrappata al collo di mamma Segila. Non parla. Non si muove. Tiene il pollice in bocca. Il suo corpo scheletrico e invecchiato dalla malattia è una dichiarazione di resa. Tranne gli occhi. Che invece sono aperti, indagatori, vivi, severi. Piantati addosso al poliziotto che sta chiedendo a Segila come fare per convincere Atina a mangiare qualcosa.
Sono arrivati col sesto volo dell’Aeronautica organizzato dal ministero della Difesa per evacuare dall’Emirato Islamico chi ha lavorato con il contingente italiano a Herat. Sono nuclei famigliari interi: 27 uomini, 31 donne, 47 minorenni, di cui 21 maschi e 26 femmine. Hanno avuto pochissimi minuti per riempire le valigie e correre all’aeroporto di Kabul. Hanno lasciato case, amici e parenti. Hanno preso quello che hanno potuto nel poco tempo che gli è stato dato.

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La famiglia di Qassem

Cartoni, trolley, borse rigonfie, sacchetti neri con il marchio di negozi sconosciuti, bottigliette d’acqua, caramelle gommose, pezzi di pane, piedi scalzi e polverosi, sandali accanto a tappeti, il pannello elettronico delle partenze che proietta le norme anti-Covid, altre valigie e altri sacchetti con dentro frammenti della vita di prima. Quattro smartphone sono attaccati a una presa. Non sono poveri che fuggono, ma persone esposte alla vendetta degli studenti coranici.
Si sente il vociare degli uomini che siedono vicini e indossano il perahan tunban, il tradizionale vestito lungo. Un anziano con il kolah namadi, il cappello bianco, si è assopito, ma è ritto sulla sedia come fosse sveglio, le gambe accavallate. Le donne sono più silenziose, avvolte nell’hijab tengono in braccio figli di un anno, due anni. Alcune bambine sono vestite come piccole principesse. I ragazzini non si fermano un attimo, giocano a rubabandiera. Sono di etnia tagika, di fede sunnita e di cultura persiana, parlano il dari. I poliziotti della Polaria hanno portato cappellini, pennarelli, matite colorate e fogli di carta, mentre altri poliziotti dietro a quattro tavolini protetti da un pannello di plexiglas sbrigano le procedure per il visto. “Number fifty-five!”, grida un soldato.

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Sapide ha diciassette anni e un nome che significa luce. Ha un velo rosa, una tunica verde, l’orologio sopra la manica. È una delle figlie di Qassem. “Frequentavo una scuola superiore, maschi e femmine insieme. I talebani non lo vogliono questo, non accettano di farmi studiare. Voglio imparare le lingue, lavorare, sposarmi con qualcuno che amo”. Con sé ha un borsone nero. “Ci ho messo quattro abiti e due libri di religione in inglese”.

Calpestati dalla folla

Qassem osserva Sapide mentre tiene la mano dell’altra figlia, Salma. Per 14 anni Hamad Qassem ha trasportato cibo dentro il compound italiano, ricevendo uno stipendio di 600 dollari al mese. In Afghanistan, è molto di più di quanto guadagna un chirurgo. “Ogni mattina alle 8 andavo alla base e mi facevano il pass Nato. Talvolta non potevo tornare a casa perché fuori sparavano e si ammazzavano”. Mercoledì l’hanno chiamato al telefono. Gli hanno detto di sbrigarsi, che c’era un posto sul volo. “Però i talebani a Kabul non ci facevano passare. Mostravo loro i documenti, se ne fregavano. Per due notti abbiamo dormito in strada, vicino a un canale di fognatura, con la sabbia che ci entrava in bocca. Mia moglie è morta anni fa, ero solo con i miei cinque figli e la nonna che ha 62 anni. Pensavo di non farcela. Due bambini sono stati calpestati dalla folla, una scena orribile. Ho contato quindici cadaveri sulla via per l’aeroporto”. Quello che ha visto Qassem è il suo Paese inghiottito da un regime oscurantista, quello che chiede ora è un punto da cui ricominciare. “Sono grato all’Italia, vorrei avere un lavoro per dare da mangiare ai miei figli. Non mi serve altro. In Afghanistan? Tornerò appena qualcuno caccerà i talebani. Succederà, se Dio vuole”. Insciallah, come sempre.

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Nilo, il lottatore

Nessuno, a parte Sapide, parla inglese. A fare da interprete è Nilo, un afghano di 23 anni alto e con le spalle larghe. Ha la tuta della Croce rossa, come gli altri sta dando una mano. Una storia tra mille storie. “Sono potuto venire in Italia nel 2015 grazie a una borsa di studio, ho frequentato l’Accademia militare di Modena e ora studio Scienze politiche alla Federico II di Napoli”. Il passato è un cane che lo bracca e ancora morde. “Mi capita di svegliarmi la notte perché mi sembra di udire le raffiche dei kalashnikov e le esplosioni dei lanciarazzi. In Accademia mi hanno sottoposto a un test psicologico per valutare l’età del mio cervello. Per le esperienze che ho accumulato, sono come una persona di 51 anni”. Nilo è il soprannome, in realtà si chiama Nehal. Le sue orecchie hanno cartilagini spappolate. “Facevo lotta libera in Afghanistan. Sono stato anche campione nazionale. Sono qui a Fiumicino perché mi sento in debito. Con l’Italia e con i miei fratelli connazionali”.

Il mago Pino

Siamo arrivati al numero 80, il visto per la famiglia di Obayd che di professione è imbianchino e nella base di Herat era il factotum, risolveva i problemi. “Non potevo rimanere, i talebani mi cercavano. Finora non hanno mostrato il loro vero volto, credetemi”. All’improvviso, al Terminal 5, si presenta il Mago Pino e per un’ora, diventa l’ombelico del mondo. Perché ai bambini servono pennarelli per colorare il domani ma anche sorrisi per dimenticare il passato. E pazienza se il sovrintendente capo Giuseppe Di Coste, 53 anni di cui 23 in servizio alla Stradale e una passione per la prestidigitazione affinata a Los Angeles, in ufficio al Tuscolano aveva solo un mazzo di carte. L’hanno chiamato ed è venuto di corsa.
Comincia col suo cavallo di battaglia, un gioco che si chiama between your hands, tra le tue mani. Dà dieci carte a Mustafa e chiede agli altri di soffiare. Per magia le carte di Mustafa diventano 13, poi 16, poi 19, rendendo il mago Pino immediatamente l’eroe di questi piccoli afghani con la bocca aperta. Sono tutti attorno a lui. Mustafa è fisicamente avvinghiato alla sua gamba destra. Anche Atina lo osserva, da lontano, muta e immobile. Il mago Pino con le mani fa sparire e riapparire gli assi e i re, li conta in italiano, “unooo… dueee”, e uno dei suoi spettatori con la maglietta di Christian Bale lo imita. La magia non ha bisogno di interpreti, parla tutte le lingue del mondo.

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Le nuvole che ridono

Tra un paio d’ore atterra un altro aereo con altri salvati, bisogna muoversi. Tra le file di sedie davanti agli undici banchi del check-in, ci sono i boy scout che aiutano le madri, i soldati che controllano (l’Esercito è responsabile degli evacuati fino alla fine della quarantena), i poliziotti, la Croce rossa, i medici del ministero della Salute. Finora nessuno è risultato positivo al tampone. I bambini hanno preso possesso del pavimento. Ce ne sono diciassette che disegnano case, robot, alberi. Maisam tra quattro giorni compie un anno, ha afferrato il pennarello arancione e ha riempito il foglio con uno scarabocchio rotondo. Sua madre Samana, 32 anni, con whatsapp lo sta mostrando alle sorelle, per tranquillizzarle. “Ho quattro figli e ora che sono in Italia non voglio rimanere chiusa in casa come in Afghanistan. Voglio lavorare. Per la prima volta sento di essere anch’io un essere umano sulla terra”.

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Visto numero 105. Sono tutti identificati, fotosegnalati, dotati di lasciapassare. Salgono sui pullman, destinazione Cosenza. I bambini salutano il Mago Pino, che ora chiamano Pino Ton, Pino amore. Dal finestrino gli fanno il segno del cuore con le dita. Come in un gioco di prestigio, ieri erano a Kabul, oggi sono in Italia. Il futuro è finalmente nelle vostre mani come l’asso di cuori, between your hands. Atina è arrampicata sulla spalla della mamma. Non saluta, osserva. Quello sguardo, che pesa come una sentenza.

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