NEW YORK – Joe Biden rassicura gli americani: non abbassa la guardia sul pericolo del terrorismo, in particolare l’Isis-K ancora forte in Afghanistan. “I nostri aerei militari che decollano da Kabul – annuncia il presidente – non volano qui negli Stati Uniti bensì atterrano in paesi terzi. Lì i richiedenti asilo, i candidati ai visti, sono sottoposti a esami accurati. Una volta superata la selezione, daremo il benvenuto a tutti quegli afghani che hanno sostenuto le nostre truppe durante i vent’anni di questa guerra”.
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di
Major Garrett
22 Agosto 2021
Biden sottolinea che “i terroristi possono cercare di sfruttare questa situazione”. L’inconsueta conferenza stampa domenicale serva a fare il punto sull’evacuazione: “11.000 messi in salvo nelle ultime 30 ore, 33.000 da luglio. Tra questi abbiamo evacuato migliaia di cittadini dei paesi Nato, e darò nuove garanzie agli alleati parlando al G7. Ora abbiamo attivato la flotta civile di riserva, usando la legge varata dopo la seconda guerra mondiale per il ponte aereo da Berlino, le compagnie aeree Usa contribuiranno con voli dai paesi terzi in Europa, nel Golfo, in Asia centrale. Questa evacuazione sarebbe stata ardua e dolorosa in qualsiasi data, ma stiamo dimostrando di poter mettere in salvo migliaia di persone. C’è ancora molto da fare, e gli incidenti sono in agguato”.
Si continua a indagare sulla genesi della débacle di Kabul. Le ricostruzioni convergono: a sguarnire eccessivamente il dispositivo militare Usa sul terreno chiudendo la base aerea di Bagram sono stati i generali. Gli stessi che per 20 anni hanno “allevato” un esercito afgano che poi si è squagliato in 20 giorni. La trappola per Biden è classica: per eseguire una decisione rischiosa e traumatica, ha dovuto affidarsi alla classe dirigente che per 20 anni aveva voluto la strategia opposta.
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dal nostro corrispondente
Federico Rampini
20 Agosto 2021
Il Pentagono non ammetteva di aver sbagliato, ha continuato a raccontare di un esercito regolare afghano che avrebbe resistito almeno uno o due anni. Sulle bugie dei generali americani riguardo alla tenuta delle forze armate di Kabul, parla il rapporto ufficiale dello Special Inspector General for Afghanistan Reconstruction (Sigar): dal 2012 denuncia “un esercito fantasma”, smentendo l’ottimismo del Pentagono che quell’esercito ha finanziato, equipaggiato, addestrato.
La pianificazione del ritiro e dell’evacuazione ha richiesto 36 riunioni del National Security Council da aprile. Questo organismo, cabina di regìa della strategia militare e di politica estera della Casa Bianca, è diventato un pachiderma burcratico. Aveva 50 funzionari ai tempi di Nixon-Kissinger, oggi ne ha sette volte di più. Ma gli errori di Biden e della sua squadra sono quasi marginali rispetto a questo dato di fondo: chi doveva pianificare il ritiro era contrario al ritiro.
Con 700 miliardi di budget annuo “ordinario” e 33 livelli di burocrazie stratificate ai suoi vertici, il Dipartimento della Difesa è il classico organismo autoreferenziale, che nutre se stesso, seleziona per cooptazione, premia il conformismo, non ama gli innovatori, odia ammettere di avere sbagliato. Attorno alla lobby militare ne sono cresciute altre. Biden viene processato dai colpevoli del disastro afghano che allignano in tutto l’establishment di politica estera: la élite globalista – repubblicana e democratica, bushiana e obamiana – che pratica il “groupthink”, il conformismo del pensiero unico internazionalista.
Lo denuncia Stephen Walt, autore del saggio “America’s Foreign Policy Elite and the Decline of U.S. Primacy.” Walt scrive che “l’establishment di politica estera ha dato risultati disastrosi durante questo conflitto, scaricandone i costi sui soldati americani e sul popolo afghano. Ma i responsabili non devono rendere conto a nessuno. Gli architetti della disfatta hanno costruito carriere profittevoli nei think tank, come consulenti, nelle università o nel settore privato, vengono considerati esperti di una guerra che non hanno saputo vincere. Ora coloro che dovrebbero essere screditati danno la colpa ad altri per i loro fallimenti”.
Tra le ragioni dietro il coro conformista che attacca Biden una è ingombrante. È scomodo riconoscere le continuità tra la politica estera di Donald Trump e quella di Biden, dopo che ciascun campo aveva demonizzato l’avversario. Chi sembra riconoscere la coerenza, sono gli elettori: nonostante il disastro di Kabul, una netta maggioranza continua ad approvare la decisione di porre fine alla guerra.