L’estate difficile di Lamorgese e l’idea di un incontro con Salvini

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Luciana Lamorgese, 67 anni, prefetto, ministra dell’Interno da due governi, è abituata per costume professionale a non rispondere mai pubblicamente alle critiche ma le ascolta e le legge tutte. Un po’ è l’abitudine a restare sempre sopra le parti, un po’ è il realismo di considerarle un accidente fisiologico del mestiere, specie per un ministro tecnico di una maggioranza così assortita e litigiosa. Una critica, però, la ferisce di più: «Ministra assente». In questo agosto pesante, dove le è caduto addosso di tutto, dalla gaffe in tv sul Green Pass (disse che i commercianti non potevano controllare i documenti di identità, poi rettificò) all’emergenza profughi e al rave fuori controllo nel viterbese, non ha mai lasciato l’ufficio al Viminale. Ferie, non previste. Accusatemi di tutto, direbbe Lamorgese se volesse, ma non di latitanza.
Il problema, forse non risolvibile, è che l’assenza presunta che le rimproverano i leader e i giornali della destra è molto diversa da quella che qualcuno le contesta a sinistra: l’assenza, cioè, di iniziativa politica, una gestione prefettizia del Viminale dove l’aggettivo non ha certo la connotazione fiera che la ministra, di per sé, prenderebbe per un complimento. Fatto è che Lamorgese ha il poco invidiabile primato di ministra che di solito non scontenta una parte a vantaggio dell’altra e viceversa, bensì sconta quasi sempre il malumore dell’una e dell’altra.
I leghisti la accusano di aver spalancato i porti alle navi delle ong; le ong e una parte della sinistra lamenta – non senza ragioni – che si infliggano ancora attese di giorni a imbarcazioni piene di migranti allo stremo. Proprio ieri Lamorgese ha dato il via libera all’attracco di una nave di Medici senza frontiere con 322 migranti a bordo, di cui 95 minori e un neonato di due settimane. Come sempre in questi casi, ha sentito al telefono Draghi e concordato con lui la decisione. Ma la condivisione delle scelte con Palazzo Chigi non l’ha mai messa al riparo dagli attacchi concentrici.
Salvini la addita ai fan della Bestia, la macchina digitale che mezzo asseconda e mezzo scatena gli istinti dei seguaci del leader leghista, come la rottamatrice dei decreti sicurezza di epoca gialloverde. D’altra parte, i dem si domandano perché non abbia ancora proceduto ai decreti attuativi per rifinanziare gli ex Sprar, i centri di accoglienza nel frattempo ribattezzati con l’ennesimo volatile acronimo, come previsto dai nuovi decreti approvati durante la stagione giallorossa.
Nella propaganda di Salvini, Lamorgese ha chiaramente preso il posto che fu già di Elsa Fornero e Laura Boldrini. E chissà se è solo un caso che siano tutte donne. L’algoritmo che gestisce le grida salviniane sui social ha da tempo individuato nella titolare del Viminale il carburante migliore. Questo mese Salvini è tornato anche a chiedere le dimissioni della ministra. Ha alzato così tanto i toni che a qualcuno a Palazzo Chigi è sorto persino il sospetto che si preparasse a offrire un baratto: tregua su Lamorgese in cambio dell’assoluzione del sottosegretario Claudio Durigon, le cui nostalgie mussoliniane devono ancora passare al vaglio, oltre che delle aule parlamentari, anche del giudizio personale di Mario Draghi.
La ministra, che non dà credito all’ipotesi del mercimonio e che sa bene di essere insediata sull’ala più esposta dell’edificio di governo, ha messo la questione nelle mani di Draghi. Non vuole esporlo a tensioni ulteriori e gli ha chiesto di valutare la possibilità che sia lui a organizzare un incontro con Salvini, finite le ferie della politica, per provare a uscire da questa fase acuta di scontro. La ministra, di certo, non ha intenzione di cambiare la sua linea di condotta. Parla con tutte le forze politiche, decisa però a non schiacciarsi su nessuna e a difendere il profilo tecnico del suo mandato. Con la Lega di governo, del resto, i rapporti sono buoni: sia Giancarlo Giorgetti che Luca Zaia, per fare due nomi, sono interlocutori abituali.
Il Pd. che pure è il partito che più ha mostrato solidarietà a Lamorgese per gli attacchi di Salvini, non ha però più rappresentanti al Viminale dopo la nascita del governo Draghi e teme che la linea tecnica rischi di portare a risultati poco spendibili con una parte del proprio elettorato. Ma in queste ore la preoccupazione principale è che la prudenza nell’attuazione dei nuovi decreti sicurezza possa creare problemi ai sindaci, battaglione fondamentale del partito di Letta, nella gestione della macchina dell’accoglienza e dunque nel consenso. Diverso è invece il caso di quelle aree della sinistra, sia dem sia extradem, che di Lamorgese danno un giudizio negativo deplorando l’eccesso di continuità con gli esecutivi precedenti nella gestione del dossier immigrazione e soprattutto negli accordi con la Libia.
Tutti i partiti sono convinti che il Viminale sarà ancora il cuore dello scontro politico alla ripresa autunnale, ancora più se gli scenari di esodo di massa dall’Afghanistan dovessero essere confermati dai fatti. C’è anche chi si spinge a immaginare scenari fantapolitici, come la sostituzione di Lamorgese. I più maliziosi commentano che non ce ne sarà bisogno, perché Palazzo Chigi ha già in Franco Gabrielli, sottosegretario all’Intelligence, una sorta di ministro dell’Interno ombra.

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