Trent’anni dopo, ricorda ancora i volti dei palermitani che erano davanti alla Sigma, il giorno che portò sulle spalle la bara di suo padre Libero, ucciso dalla mafia il 29 agosto 1991 per aver detto no al racket del pizzo. «Hanno scritto che erano in pochi ad aspettare davanti alla nostra azienda – sussurra Davide Grassi – per me erano tanti, e appena uscito nello spiazzale sentì il bisogno di comunicare con loro. Ricordo lo sguardo di Letizia Battaglia, e quello di Franco Piro, vecchio militante socialista. Alzai le dita in segno di vittoria. E anche loro fecero lo stesso gesto, che non si vede nella foto diventata il simbolo di quel giorno, ma è importante che qualcuno avesse risposto». Trent’anni dopo, questa non è ancora una storia del passato. Un mese fa, un’indagine della squadra mobile ha svelato che a Ciaculli il pizzo veniva pagato da una cinquantina di commercianti ai fedelissimi del nipote di Michele Greco, il “Papa” di Cosa nostra. Nessuno ha denunciato. «Un dato preoccupante – dice Davide Grassi – oggi, per fortuna, Palermo non è quella di un tempo, ma c’è un passato che rischia di tornare nell’indifferenza di tanti, come allora. Della politica soprattutto». Trent’anni dopo, le parole del figlio di Libero Grassi sono soprattutto il racconto di uomo che immaginava una Palermo diversa.
Come definirebbe suo padre?
«Non ammetteva di essere insensibile a migliorare il posto in cui viveva. Negli anni Settanta era stato nel consiglio di amministrazione dell’azienda del gas, come espressione del Partito repubblicano, di cui era militante: fece una grande battaglia contro la lobby dei bombolari perché il servizio fosse esteso anche ai quartieri popolari. Poi, da imprenditore era arrivato a dare lavoro a 120 dipendenti, una grande soddisfazione per lui che veniva da una famiglia catanese che aveva molto lavorato nel settore tessile».
Chi era stato il suo modello di imprenditore?
«Il leader della famiglia era lo zio Peppino, che nei primi del 900 aveva rappresentanze tessili in tutta Italia. Se ne partiva col camion e girava l’Italia. Il nonno paterno era invece direttore del negozio Croff di Catania, poi nel 1932 fu trasferito a Palermo, mio padre aveva 8 anni. In seguito, il nonno si mise in proprio, aprendo un negozio in via Cavour, che poi gestì mia madre».
Quando iniziarono le prime richieste di pizzo?
«Molti non sanno che mio padre aveva iniziato la sua battaglia contro la mafia già a metà degli anni Ottanta. Ogni giorno, arrivavano telefonate pesanti. Fu davvero un periodo difficile, ma lui non si piegò. Poi, un giorno di luglio, fecero in azienda una grossa rapina, portando via diecimila euro in contanti, erano parte degli stipendi. Fu la risposta della mafia».
Un’altra foto simbolo è quella di suo padre in barca a vela.
«Fu scattata pochi giorni prima dell’omicidio, nel golfo di Mondello. Era stata mamma a trasmettere a me e a mia sorella Alice, poi anche a suo marito, la grande passione per la vela. In quello scatto, papà ha uno sguardo sereno, nessuno immaginava quell’epilogo drammatico, anche se il livello delle sue denunce contro il racket si era alzato sempre di più. Papà era stato anche ospite a Samarcanda, intervistato da Michele Santoro. Denunce in solitudine a Palermo».
Quella solitudine è rimasta scolpita nel tazebao che ogni anno sistemate in via Alfieri, sul luogo del delitto. Dice così: “Uomo coraggioso, ucciso dalla mafia, dall’omertà dell’associazione degli industriali, dall’indifferenza dei partiti e dall’assenza dello Stato”. Quanto è ancora aperta la ferita di trent’anni fa?
«Non provo più rabbia per quei silenzi, penso che mi hanno consentito di capire esattamente Palermo. E, oggi, mi rendo conto che il silenzio della politica sulla mafia che si riorganizza rischia di essere pericoloso, in un momento in cui stanno per arrivare i soldi del Recovery fund. Il tema della lotta alla mafia dovrebbe essere una priorità».
Che città è diventata Palermo?
«Ha ancora molte zone grigie. Per fortuna, però, molte altre sono diventate bianche. Altre, nere. Mi ha colpito il fenomeno degli spaccaossa: ci sono persone disposte a farsi fratturare una gamba o un braccio per una manciata di soldi».
Quale è stato, secondo lei, il contributo più importante al cambiamento di Palermo sul fronte della lotta alla mafia?
«Un ruolo fondamentale è stato quello dei ragazzi di Addiopizzo. Sono arrivati lì dove nessuno era riuscito. Partendo peraltro in modo casuale, volevano aprire un pub e si posero la domanda: e se qualcuno ci viene a chiedere il pizzo cosa facciamo? Da lì è nato un percorso per sostenere in ogni momento le vittime del racket».
Da allora si aperto un gran dibattito sul modo di fare antimafia.
«Abbiamo anche assistito a dei casi devastanti, come quello dell’ex presidente della Camera di Commercio Roberto Helg, della giudice Silvana Saguto o di Antonello Montante, che hanno creato danni enormi. Sono casi che hanno determinato grande delusione nel movimento antimafia, perché i protagonisti di quelle storie erano punti di riferimento per tante persone impegnate nelle battaglie per la città».
Come crede si sia evoluta la parte migliore del movimento antiracket?
«I ragazzi di Addiopizzo hanno affiancato all’attività di sostegno e di accompagnamento delle vittime alla denuncia un percorso importante di educazione alla legalità per le giovani generazioni che vivono in contesti disagiati. Lo fanno molto bene, potremo vedere i risultati di questo lavoro fra dieci anni».
Intanto, in alcune zone della città, il pizzo è ancora imposto a tappeto, nonostante Cosa nostra sia fiaccata da arresti e processi. Perché ?
«Non bisogna dimenticare che il racket ha delle motivazioni profonde. Innanzitutto, di signoria territoriale. Non solo, di reperimento delle risorse. Il mafioso continua a dire: “In questa strada comando io”. E questa affermazione è anche più importante del pagamento. Ecco perché il fenomeno resta radicato. Bisogna continuare un lavoro sul territorio per debellarlo, un percorso a più livelli: giudiziario e sociale».
Quando ha visto suo padre per l’ultima volta?
«Ci siamo salutati il giorno prima del delitto, in azienda. Avevamo discusso dell’ingresso di nuovi soci, aveva tanti progetti. Poi, la sera ho fatto tardi con alcuni amici, alle 8 ho telefonato dicendo che avrei ritardato. La segretaria mi ha detto: “È meglio che vai subito a casa, è successo qualcosa di grave a tuo padre”. E da allora la mia vita è cambiata. Ma non ho mai smesso di andare in barca a vela».
Domenica prossima, in occasione del trentesimo anniversario del delitto, lei e sua sorella Alice metterete un nuovo tazebao in via Alfieri.
«È importante ricordare e raccontare alle giovani generazioni chi era Libero Grassi. In questa nostra Italia, purtroppo, continuano ad esserci morti di mafia noti e altri meno noti. Chissà poi perché. Anche per ricordare nel modo più giusto Libero Grassi speriamo che possa essere realizzato al più presto il parco intitolato a mio padre, un’area di 11 ettari che si apre sulla costa sud di Palermo, ad Acqua dei Corsari. Il Comune ha avviato la gara per la bonifica dei luoghi, l’associazione nata per riqualificare la zona ha lanciato un concorso internazionale di idee. Il progetto vincitore verrà donato al Comune. Così, finalmente dopo tanti anni, Palermo ricorderà in modo concreto l’uomo che voleva rendere migliore questa città».