MILANO – Oltre 160 adempimenti fiscali solo tra il 20 di agosto e la fine del mese. Aiuti a pioggia da chiedere, documenti e scartoffie a pacchi per cercare di intercettare gli aiuti di Stato per la pandemia. Oltre alla normale amministrazione, che già di per sé è complessa. Viene difficile pensare che non ci sia lavoro, di questi tempi, per i commercialisti e più in generale per le professioni che affiancano le aziende e i cittadini nella gestione delle problematiche fiscali, del lavoro, giuridiche. Eppure, come i camerieri per i ristoranti, si rischia di andare incontro a una carenza di materia prima: i lavoratori.
A lanciare l’allarme è stata in qualche modo l’Unione dei giovani dottori commercialisti, presieduta da Matteo De Lise, che ha rilevato come siano pericolosamente in calo i nuovi tirocinanti che si affacciano alla professione. Se al primo gennaio del 2019 c’erano quasi 14 mila iscritti al registro del tirocinio, un anno dopo sono risultati in diminuzione del 9,8%: una emorragia di 1.345 giovani aspiranti commercialisti. E poi è arrivato il Covid ed è complicato immaginare che ci sia stato uno slancio di ripresa.
I dolori del giovane commercialista hanno una serie di cause. “Da una parte, in questo periodo è come se il commercialista fosse diventato il parroco del paese: tutti hanno bisogno – ragiona De Lise – Ma, d’altra parte, non riesce ad avere la giusta retribuzione per la mole di lavoro che produce”. La categoria, poi, pecca di scarsa capacità di muoversi in modo unitario. “C’è una forte concorrenza al ribasso sui prezzi tra gli studi e i singoli professionisti – è l’autocritica di De Lise – e paghiamo caro la concorrenza dell’abusivismo“.
Mario Catarozzo, consulente autore de Il futuro delle professioni in Italia, allarga lo sguardo alle altre categorie. “Senza dubbio c’è un problema di attrattività che si lega alla perdita di salario e di prestigio sociale per commercialisti, avvocati, notai“. Nell’ambito dei contabili, ad esempio, i dati del Sole24Ore dicono di una stagnazione ultradecennale delle buste paga: l’imponibile Irpef di quasi 60mila euro del 2008 è arrivato “solo” a 61mila euro nel 2019. In termini reali, la perdita è stata di oltre il 10%. A questo si aggiunge un “ritmo di lavoro molto elevato, per l’affollamento del calendario delle scadenze”. C’è, poi, senz’altro un effetto-riflusso dopo vent’anni di crescita delle professioni, ma ci sono anche tanti nodi strutturali che le categorie devono risolvere se non vogliono esser spazzate via.
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“E’ chiaro che siamo di fronte a cambiamenti epocali”, dice De Lise, “che la pandemia ha accelerato: in un anno e mezzo è stato un salto in avanti di dieci”, fa eco Catarozzo. Entrambi concordano nel stimare che l’80% degli studi di commercialisti “si occupi di fatto solo di contabilità, adempimenti e compiti ripetitivi”. Ruoli che sono a maggior rischio di digitalizzazione e che, soprattutto, non attirano certo i giovani desiderosi di confrontarsi con un ambiente più stimolante.
Se il “tasso di sostituzione dei dottori commercialisti è molto basso”, spiega De Lise, forse si deve alla situazione che descrive Catarozzo. “Troppi studi interpretano ancora la professione alla vecchia maniera. Invece devono divnetare sexy: non devono cercare i giovani, ma attirarli. Dopo la pandemia, i giovani non sono più disposti ai sacrifici fini a sé stessi: non vogliono fermarsi fino a tarda sera in studio, ma chiedono flessibilità, equilibrio con la vita privata, la possibilità di lavorare in smart working. In tantissimi casi, invece, trovano strutture che non hanno software e soluzioni in cloud per lavorare da remoto, dove non ci sono piani almeno triennali di sviluppo delle carriere dei giovani collaboratori, dove si va a naso senza avere un disegno per lo sviluppo del fatturato ma si seguono ciecamente le scadenze e poco più”.
Su questo, si aggiunga che il Fisco nazionale si sta chiaramente muovendo nella direzione di disintermediare il rapporto col cittadino: basta pensare alle dichiarazioni precompilate e a quelle Iva per capire su quale rotta sono le Entrate. “La riforma del fisco dovrebbe anche portare a una razionalizzazione del calendario, in modo che i professionisti possano dedicarsi all’attività di consulenza sul modello degli avvocati d’affari anglosassoni”, indica De Lise come soluzione per dare un futuro alla professione. Su questo terreno, però, la concorrenza dei grandi studi a vocazione internazionale rischia di essere vincente. Ma per Catarozzo c’è spazio per trovare la propria collocazione: “Ci sono 250 studi di grandi dimensioni, multi-disciplinari, che lavorano con le aziende medio-grandi. E non c’è futuro per gli studi di singoli professionisti. Questi dovranno associarsi, sottoscrivere contratti di rete per rispondere alle esigenze delle Pmi. Gli imprenditori chiedono che i professionisti siano specializzati e pretendono di avere un unico interlocutore per affrontare le diverse problematiche di loro interesse. Sono disposti a pagare per la consulenza a valore aggiunto, non più per gli adempimenti. Quindi gli studi devono diventare società di servizi che ingloberanno più specializzazioni e diverse figure professionali, dal commercialista all’avvocato al consulente del lavoro”.