Kabul, assalto al cielo. “Li tiriamo fuori dall’inferno”

Read More

Sono troppi per poterli contare. Sono donne e uomini, i bambini invece saranno una ventina. L’acqua è alta fino alle ginocchia. Ma non è acqua. È un liquido nero, putrido, l’odore è nauseabondo. Queste centinaia di persone camminano nella fogna a cielo aperto che accompagna tutto il perimetro dell’aeroporto e che si apre davanti a quello che, oggi, è l’unico accesso alla stazione di Kabul: Abbey gate, un vecchio ingresso dello scalo che è diventato una strettoia fatta di container.

Ci sono una ventina di militari arrampicati su un muretto (lo stesso dove è salito anche il nostro console Tommaso Claudi per tirare su donne e bambini) che fanno su e giù per questa specie di balaustra. Ma non sono sentinelle. “Peschiamo la gente dalla merda”, dice uno di loro, e non potrebbe dirla meglio. Prendono in braccio, da questo letamaio, chi scappa per paura dal proprio paese e cerca un futuro in un altro posto del mondo. Questo giovane carabiniere del Tuscania, il reparto scelto dell’Arma, ne ha sollevati un centinaio da ferragosto a oggi. “Siamo come Caronte. Perché questo è l’inferno. Dall’altra parte speriamo, però, ci sia il paradiso”.

“Un grande attentato con quattro autobombe”: il fattore “K” dell’Isis minaccia l’Occidente

di

Carlo Bonini

25 Agosto 2021



Aeroporto di Kabul, le ultime 24 ore. A mezzanotte di oggi si dovrebbe fermare il flusso dei voli che trasporterà civili afghani in Italia. Venerdì dovrebbe toccare ai nostri uomini. Poi, fino al 31, data in cui gli americani lasceranno il Paese tutto qui dentro dovrebbe essere distrutto. L’ultima finestra è garantita da un accordo tra Usa e talebani annunciato ieri per salvare chi dovesse restare indietro tra i 1.500 cittadini americani ancora sul suolo afghano. Poi chi non riuscirà a partire, dovrà restare ancora qui. Nella notte erano ancora a migliaia: fuori da Abbey gate, secondo un calcolo fatto dagli americani, nella giornata di ieri sono passati almeno in diecimila, ma in pochissimi sono riusciti a entrare. Il numero dei militari è dovuto man mano diminuire: i servizi hanno lanciato un allarme preciso di quattro auto bombe dell’Isis pronte a colpire nella folla. La prima a sfondare la barriera, le altre a seguire.

Gli afghani che vogliono scappare sono però ancora centinaia di migliaia. “La situazione è delicata”, dice una fonte della Nato anche perché, sottolinea, forse si è perso troppo tempo. Perché si è partiti in ritardo e gli uomini a lavoro sono per lo più militari, senza competenze a gestire l’ordine pubblico (i danesi, per esempio, hanno mandato poliziotti formati a fare quello e hanno esfiltrato il 100 per cento). E perché, di fatto, tra qualche giorno, Kabul non avrà un aeroporto: i turchi potrebbero riaprire la vecchia pista dove esiste un vecchio radar sovietico di fine anni ’80, ma servirà tempo. E soprattutto non è affatto detto che i talebani siano in grado di garantire la sicurezza necessaria. L’Isis fa paura.

Afghanistan, burqa, paura e strade deserte la vita sospesa della capitale

di

Norimitsu Onishi

Sharif Hassani

25 Agosto 2021

L’Italia sta facendo un miracolo di generosità: a ieri erano 4.400 gli afghani evacuati con l’operazione Apulia (la maxi operazione della nostra Difesa e diretta dal Covi, guidata dal generale Luciano Portolano), ottocento potrebbero partire oggi. Ma il miracolo è nelle facce, nelle parole, nelle storie dei 400 che aspettano di salire su un nostro C130, direzione Kwait city. Per poi salire a bordo di un 767 fino a Roma. Farzana, 31 anni, ha sua figlia piccola in braccio e il grande, che ha sette anni, cammina con la mano stretta alla sua. Il papà è in fondo alla fila. “Avanti donne e bambini”, sorride lei. Lavorava per una società di consulenza che collabora con i paesi occidentali, anche l’Italia. Si occupa di logistica e l’aspetta un posto di lavoro in Italia. “Voglio sorridere. Ho voglia di leggere i vostri libri e vedere vivere felici i miei figli”. Sono stati giorni difficili: “Sono rimasta per una settimana chiusa in casa. Sono donna. E ho lavorato con gli occidentali. I talebani avrebbero potuto fare qualsiasi cosa di me”.

Partire significa anche lasciare. Davanti a Farzana una ragazza della sua età si inginocchia e bacia la sua terra. Poi ci sorride, e subito dopo piange. “Ho un futuro. Ma qui lascio il mio passato”, ripete. Salgono su un C130, ad aiutarle c’è una delle due donne del contingente italiano. Sorride e accarezza uno dei bambini. L’altra collega è invece un’infermiera e sta pochi passi più in là, all’interno dell’hangar italiano dove ci sono i profughi in attesa di partire. È giovane, con i capelli lunghi neri. “È bravissima”, dice il suo superiore, un ufficiale medico. “Ha organizzato quell’angolo con tutti i cartoni: ci sono pannolini, latte, prepara biberon e visita con me bambini disidratati. Vediamo cose che non avremmo mai voluto vedere. Ci sono dei pianti che non ci usciranno mai dalla testa. Ma ce la faranno. E per questo noi siamo felici, anzi felicissimi”. La ragazza sorride e dice solo: “Le dispiace prendere quel succo di frutta rosso? È buonissimo ma mi spiace non posso darglielo, ne ho pochi, servono ai bambini”.

Accampati fuori dall’hangar italiano ci sono centinaia di persone in tende di fortuna, coperti da vecchi teli o da cartoni del rancio dei militari, appoggiati al filo spinato che divide gli spazi dello scalo. Eppure sorridono. Perché hanno varcato la linea d’ombra. Dall’altra parte di Abbey gate c’è l’unico altro varco che permette di entrare nello scalo: è quello Nord, presidiato dai militari americani. Hanno i carrarmati puntati sulla gente che resta lì in fondo per tutta la notte, ammassata tra le reti e il muro. Davanti al militare americano di guardia, appesi al filo spinato, ci sono dei vestiti. “Sono di chi è entrato e non poteva portare troppi bagagli”, spiega. C’è un vestito viola, bellissimo, da principessa, con tutti gli strass e il pizzo sotto e sul colletto. Taglia 4 anni.

Haqqani, il terrorista che dividerà il potere con i talebani

di

Antonio Giustozzi

25 Agosto 2021

Diario da Kabul. “L’orgoglio del Panshir che resiste”

di

Alberto Cairo

25 Agosto 2021

Amena e Roqja sono sedute sotto la bandiera italiana, fuori dalla tensostruttura italiana. “Sembriamo una pubblicità?” dicono, abbozzando un sorriso. Si occupano di economia, lavorano in una multinazionale. “Abbiamo pensato che i talebani venissero, e ci uccidessero. O comunque ci impedissero, per sempre, la nostra vita. Andare è difficile. Ma noi ora vogliamo vivere e un giorno tornare nel nostro paese libero”. “Tornare” e “libertà” sono le stesse parole che usano Amena e Qasem, un ragazza e un ragazzo giovanissimi. Lei ha 15 anni, e dice di avere “diritto alla luce”, proprio così: “Diritto alla luce”, e lo dice nascosta da un paio di occhiali rotondi senza montatura, un po’ buffi, con la testa avvolta in un foulard giallo e un anello con una pietra rossa che le spunta sulla mano destra. Qasem ha invece la faccia del primo della classe, il pizzetto, gli occhiali rettangolari, una camicia blu elettrico e un pantalone blu più scuro. È elegante. “Studio ingegneria informatica e voglio costruire prima il mio futuro. E poi quello del mio paese”.

Sul telefono dei nostri uomini continuano ad arrivare, fino a notte, segnalazioni di donne e uomini da prendere. Sono nel canale, nella fognatura a cielo aperto. Chiedono di mandare le posizioni, in modo da non sbagliare. Esistono infatti degli elenchi con i nomi e i cognomi di chi può entrare e chi non va. I militari controllano: se sono in lista, li fanno passare da una strettoia nell’aeroporto, altrimenti sono costretti a rigettarli nel canale. È ormai quasi notte quando passa un’intera squadra di pallone, sedici persone. Mentre Anoush è in fila con Ovayas, suo figlio tra le braccia. Ha l’espressione fiera. Ma dopo qualche secondo non riesce a trattenere le lacrime.

Noor ha otto anni, invece. Ed è con i suoi genitori. Ha una maglia rossa e blu, a strisce. Dietro c’è il numero 10, ed è scritto Messi. E ora che Messi non gioca più nel Barcellona, quella maglietta? Suo papà scuote la testa, non capisce. Perché non sa del trasferimento: Messi ora gioca nel Paris Saint Germain. Sorride, dice una frase del tipo, “il mondo allora è davvero cambiato”. Poi ci ripensa e torna indietro: “Per favore, potreste non dirlo a Noor?”.

Related articles

You may also be interested in

Headline

Never Miss A Story

Get our Weekly recap with the latest news, articles and resources.
Cookie policy

We use our own and third party cookies to allow us to understand how the site is used and to support our marketing campaigns.