Dalla Tora Bora di Bin Laden all’Isis-K, così la provincia di Nangarhar resta la scacchiera più pericolosa del Grande Gioco

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Da Tora Bora all’Isis. La provincia di Nangarhar è sempre stata la scacchiera più pericolosa del Grande Gioco. Lì c’era il passaggio obbligato tra la terra selvaggia dell’Afghanistan e l’Impero britannico, la gola del Kyber Pass cantato da Rudyard Kipling dove i soldati inglesi furono massacrati e umiliati nel 1842. Un confine tracciato sulla carta, che sul campo era solo una linea immaginaria a dividere montagne aspre e fiumi pronti a gonfiarsi all’improvviso. Per tre volte, fino al 1919, le truppe di Sua Maestà hanno tentato invano di prenderne il controllo, ma sono sempre state costrette a ripiegare, sconfitte dai signori della guerra afghani, abilissimi a sfruttare la geografia per imporre imboscate spietate.

La Storia lì continua a ripetersi. Quando i sovietici hanno invaso l’Afghanistan, il distretto intorno al capoluogo di Jalalabad è diventato il campo di battaglia più feroce contro i mujaheddin. Nella sterminata zona tribale che unisce Afghanistan e Pakistan la resistenza aveva creato una rete di sentieri e rifugi, per far affluire armi e uomini. Anche gli aiuti della Cia per sostenere i combattenti in lotta con i russi si muovevano lungo quelle stradine, impossibili da bloccare. L’Armata Rossa ci ha provato in tutti i modi: ha seminato centinaia di migliaia di mine, ha paracadutato gli spetnaz – i suoi commandos migliori – per colpire le carovane di muli, ha mandato elicotteri zeppi di missili a pattugliarle. Senza mai riuscire a spezzare la catena dei rifornimenti.

Non a caso, Al Qaeda è nata lì. Osama Bin Laden ha aperto le sue prime basi proprio nel distretto di Nangarhar. La leggenda vuole che abbia fatto arrivare dall’Arabia Saudita tecnici dell’azienda di costruzioni paterna per trasformare le caverne naturali in una piccola “linea Maginot”: un labirinto di tunnel, con magazzini di munizioni, riserve d’acqua, dormitori, postazioni corazzate, gallerie per piombare alle spalle del nemico. Tora Bora è stata il simbolo dei nuovi terroristi fondamentalisti, passati dalla lotta contro i sovietici alla campagna di attacchi all’Occidente. Nel 1998 una raffica di missili cruise si è abbattuta contro gli accampamenti dei jihadisti accorsi da tutto il mondo, come rappresaglia per gli attentati contro le ambasciate statunitensi in Africa. Ma non hanno stroncato i piani di Osama, che tre anni dopo è riuscito ad abbattere le Torri Gemelle.

Afghanistan, Isis-K e la sua rete pronti a seminare il terrore

di

Gianluca Di Feo

27 Agosto 2021



Dopo l’offensiva americana dell’autunno 2001, in quella roccaforte si sono radunati i miliziani islamisti in fuga da tutto l’Afghanistan: in duemila o forse più, disposti al martirio, si sono asserragliati nelle grotte. Il Pentagono allora mandò pochissimi uomini delle forze speciali – all’inizio meno di cinquanta, poi raddoppiati – convinto che sarebbero bastati i bombardamenti dal cielo per stanarli. Un’illusione. Neppure la pioggia di ordigni dei colossali B52 ha penetrato i rifugi di roccia. Accanto ai commandos Usa c’erano soldati inaffidabili: l’esercito improvvisato dell’Alleanza dell’Est, guidato da capitribù che fino a pochi mesi prima avevano condiviso il potere talebano. Fu così che Bin Laden e i suoi luogotenenti riuscirono a scappare, proseguendo la loro campagna letale per altri dieci anni.

Né le truppe della Nato, né quelle del nuovo Esercito di Kabul hanno mai pacificato la regione. E quando è sorta la nuova creatura dell’Isis-K, proprio lì ha costruito le sue basi. All’inizio non pareva una minaccia credibile, poi grazie al sostegno dei talebani pachistani e della rete di Haqqani, il più temibile tra i comandanti jihadisti, la branca del Califfato di Mosul ha preso forza. 

Nel 2017 il presidente Trump autorizzò un’azione dimostrativa senza precedenti: fece sganciare il più potente ordigno non nucleare dell’arsenale americano. La Moab, la “madre di tutte le bombe” esplose con un fungo simile a quello atomico, generando un’onda d’urto che azzerava la vita anche nelle caverne e nelle gallerie della base più importante dell’Isis-K. Più efficaci le operazioni condotte dalle squadre d’azione della Cia e dei Seals, accompagnate dalle teste di cuoio afghane: quasi 250 raid in quattro anni, che hanno decimato i manipoli del Daesh locale. Poi la ritirata della Nato ha vanificato questo impegno. I terroristi hanno ricevuto rinforzi dai pashtun del Pakistan, hanno arruolato reclute nei villaggi, presentandosi come “i veri” jihadisti e denunciando i compromessi talebani. Il crollo delle brigate di Kabul gli ha consegnato nuovi armamenti, con cui assaltare le prigioni dove erano reclusi molti dei loro compagni. 

Il resto è cronaca. Il kamikaze che si è fatto saltare in aria all’Abbey Gate, uccidendo 170 persone: quasi tutti disperati che cercavano di scappare dai talebani, tantissime donne e bambini, ma anche tredici militari statunitensi. E la risposta della Casa Bianca, affidata ancora una volta alle ali di un drone, che con una raffica di missili a guida laser ha ammazzato “un pianificatore” dell’Isis-K. Per il Pentagono è un “high value target” – un bersaglio di alto valore. Per i jihadisti solo l’ennesimo martire, che sarà glorificato per diffondere altro odio e motivare altri kamikaze.

Usa contro Talebani, cronologia di una guerra lunga quasi vent’anni

29 Febbraio 2020

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