Tagikistan, 300 dollari per salvarsi. “Oltre il fiume c’è una vita nuova”

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PANJ-E PAYON (CONFINE TAGIKO-AFGHANO) – Li troviamo nascosti nel rimorchio di un grosso tir, accovacciati uno accanto all’altro, accaldati e impauriti. Hanno appena attraversato il ponte sul fiume Panj, confine naturale tra il Tagikistan e l’Afghanistan, ma ancora non si sentono al sicuro. Nella garitta di frontiera, vediamo l’autista del camion discutere animatamente con un poliziotto tagiko. Sta verosimilmente trattando sul prezzo per la merce che trasporta: settanta afghani in fuga per i quali il trafficante non intende pagare un dazio troppo elevato. Prima della riconquista talebana di Kabul, sul suo tir caricava soprattutto materiali da costruzione, ma l’uomo sembra essersi facilmente adattato a cogliere le opportunità che può offrire l’economia di guerra.

A Shir Khan Bandar, il confine afghano, la faccenda s’è risolta in modo più spiccio. «Per passare è bastato versare 300 dollari ai talebani che occupano il posto dei doganieri, ormai disoccupati», dice Abdullah Rahimi, 40 anni, la faccia malinconica e la barba incolta, che si sporge dal rimorchio in cerca di aria fresca. «L’accesso alla libertà è vietato a chi non ha tutti quei soldi, e cioè alla maggioranza di chi scappa. Perciò, sulla riva opposta del fiume, tutti quelli che sono bloccati dalla rapacità dei talebani stanno creando un’orrenda bidonville, senza nessun servizio». 

Il Panj è un fiume ampio e profondo, e dal versante tagiko non riusciamo a scorgere la tendopoli spontanea di cui parla Rahimi. Ma vediamo che ancora sventola la bandiera dell’Afghanistan “libero”, quella del presidente Ashraf Ghani, fuggito dieci giorni fa ad Abu Dhabi, e non il vessillo nero degli “studenti coranici”. «Quei briganti hanno altro a cui pensare, poco gliene importa di una bandiera. Si dedicano piuttosto a derubare chi scappa esigendo una sorta di riscatto. Al confine, c’è un talib che sembra davvero un diavolo: giovane, appoggiato a una stampella perché con un piede amputato, ha il kalashnikov a tracolla e impugna una durah, la verga sacra su cui sono incisi i versetti del Corano. Con quella, passando tra noi che aspettavamo di poter attraversare il fiume, ci affibbiava violente scudisciate, a casaccio, dicendoci che era una punizione per i nostri futuri peccati perché una volta fuori dall’Afghanistan saremmo diventati tutti infedeli», aggiunge Rahimi. 

Tra i 70 profughi ammassati sul rimorchio ci sono afghani delle principali etnie – pashtun, uzbeca, tagica e hazara. Alcuni arrivano dalle province del Sud, dopo aver attraversato quasi tutto il Paese. Altri, come Rahimi, da Kabul: dopo aver cercato invano di penetrare nell’aeroporto, hanno finalmente scelto la fuga via terra, risparmiandosi così lo spaventoso attentato dell’altro ieri. Altri ancora, provengono invece dalla vicina Kunduz, che da qui dista una cinquantina di chilometri. Tra questi, c’è un uomo piuttosto anziano, con un bel turbante in testa, che una volta insegnava matematica. Dice: «Devastata dopo settimane di combattimenti, la mia città è caduta l’8 agosto, quando si sono arrese le centinaia di soldati delle forze di sicurezza afghane. S’erano barricate vicino all’aeroporto, ma non hanno resistito alla pioggia di granate lanciate dai talebani. I quali, prima di concedere la grazia agli sconfitti, hanno comunque torturato una ventina di ufficiali, davanti a tutti. Ad alcuni hanno tagliato una mano, come fanno con i ladri; ad altri hanno cavato gli occhi». 

Buona parte dei palazzi di Kunduz sono stati bucati dai razzi, i negozi sono stati saccheggiati, metà della popolazione è fuggita. «C’è chi ha riaperto la sua bottega, ma nessuno ha i soldi per ricostruire le case. E poiché non ci saranno più donatori internazionali per finanziare progetti di sviluppo, la città rimarrà a lungo un cumulo di macerie». È proprio a Kunduz che, a metà agosto, i Talebani hanno cominciato a vietare la musica e ad impedire alle donne di lavorare accanto agli uomini, sia pure con qualche opportunistica eccezione. Per esempio, alle dottoresse è consentito curare gli uomini. «Il burqa non è obbligatorio e le donne possono recarsi al mercato da sole. Le ragazze continuano ad andare a scuola, ma solo nelle classi con insegnanti donne», dice ancora l’ex professore. «Rispetto al passato, mi sembra che ci sia stato un miglioramento». 

Vicino all’anziano, vediamo una donna che pare sepolta sotto un lenzuolo di cotone azzurro pallido. Dopo le ultime parole proferite dall’uomo, con un ampio gesto si scopre il capo dal burqa. Ha un portamento nobile, lo sguardo fiero, mani con dite ben curate. Avrà una trentina d’anni. Rivolgendosi all’ex professore, comincia a parlare in tagiko, in modo concitato, tanto che il nostro interprete ha difficoltà a tradurre. Ma ecco quello che ci riporta la guida: «Lei crede davvero che uno scorpione possa improvvisamente smettere di pungere? Io no, non lo credo. Come non credo che possa cambiare abitudini chi frustava le persone con le catene di bicicletta fino ad ammazzarle, chi lapidava le donne interrate fino al collo e chi per decenni ha addestrato i giovani a farsi esplodere tra la folla. I talebani sono peggio degli scorpioni perché, a differenza di quelle bestie velenose, loro dispongono del libero arbitrio. Vedrà come approfitteranno dei morti dell’aeroporto per cancellare ogni “piccolo miglioramento” e per imporre nuovamente tutte le loro assurde e crudeli regole». 

Due giorni fa, il presidente francese Emmanuel Macron ha chiesto al suo omologo tagiko, Emomali Rahmon, di accogliere i profughi in arrivo dall’Afghanistan. Rahmon ha accettato l’invito, ma il Paese che governa dal 1994 dopo aver brutalmente eliminato ogni forma d’opposizione è poverissimo e privo delle strutture adeguate ad accogliere chi fugge. Quando l’autista risale sul camion, ha l’aria soddisfatta. Corrompere il poliziotto non deve essergli costato troppo. Lanciamo un ultimo sguardo agli afghani sul rimorchio. Sono più sollevati di poco fa, ma un’ombra d’angoscia sembra ancora perseguitarli.

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