“La vita ricomincia qui”. Nell’hub di Avezzano tra i profughi di Kabul

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AVEZZANO – Alle 10 del mattino un urlo scuote il silenzio del campo 2. Marzia, 16 anni, è sommersa dall’abbraccio di Mohamed, Massuma, Houssainau, gli zii che aveva perduto nella bolgia fuori dai cancelli dell’aeroporto di Kabul. Benedetto vaccino. Se non fosse stato per il database in cui gli uomini del generale Figliuolo e della Croce rossa annotano tutti i nomi dei profughi via via immunizzati ( già un migliaio), chissà se e quando si sarebbero ritrovati. Marzia si era trovata da sola, senza sapere se gli zii a cui era stata affidata erano vivi o morti.

Naim, profugo da una vita: “Pronto a riprendere la rotta dei Balcani”

dal nostro inviato

Fabio Tonacci

29 Agosto 2021

La mamma rimasta sola

Quello che, disperata, chiede la giovane donna arrivata con due bimbi, uno sempre in braccio, l’altro stretto per mano: «Vi scongiuro, ritrovate mio marito». Erano insieme, nella calca fuori dall’aeroporto quando l’esplosione del kamikaze li ha divisi. Il sangue, il terrore, la marea umana che corre, cade, calpesta. Lei viene spinta in avanti con i piccoli e salvata dai militari italiani. «Cercheremo di ritrovarlo, se è vivo, con il nostro Restoring family links, con cui lavoriamo ai ricongiungimenti dei nuclei familiari», promette Ignazio Schintu, direttore operativo emergenze della Croce rossa italiana che sovrintende alle operazioni nell’hub di Avezzano insieme alla Difesa e alla Protezione civile che in 48 ore ha montato le 160 tende per la prima accoglienza di oltre 1.300 profughi, 324 dei quali bambini sotto i 12 anni. Non un campo profughi, solo un luogo di prima accoglienza, lo screening sanitario, il vaccino, le prime informazioni. Tre, quattro giorni al massimo, la giornata che passa tra visite, colloqui con i mediatori, la tenda per la preghiera, la mensa con il cibo dedicato, prima di essere smistati in sistemazioni per ora provvisorie, alberghi o centri di accoglienza in attesa di una casa vera in cui ricominciare una nuova vita.

I disegni dei bambini

Mentre i genitori vengono vaccinati, i bambini disegnano: tante case, quelle lasciate in fretta e furia con la bandiera afghana, quelle che immaginano per la nuova vita, con il tricolore sul tetto. «Abbiamo lasciato il nostro Paese, amo l’Afghanistan ma sfortunatamente i talebani sono venuti nelle nostre case e non possiamo continuare la nostra vita qui», il pensiero di Shila, 10 anni appena.

Le calciatrici di Herat

Il futuro, una grande nebulosa, qui sembra ancora assai lontano. Solo le ragazze, come le giovanissime calciatrici di Herat portate in salvo insieme alle campionesse del ciclismo, guardano avanti. Sono partite con la maglia della squadra, un pallone verde stretto al petto il primo regalo ricevuto. «Vogliamo restare qui, imparare l’italiano, studiare e continuare a giocare a calcio. Vogliamo farci una vita finalmente in un Paese senza guerra».

Donne e creativi, la classe media in fuga da Kabul

dal nostro inviato

Daniele Castellani Perelli

29 Agosto 2021

Il colonnello in fuga

Il passato, invece, per gli adulti, è ancora presente. Il loro cuore è a Kabul, è negli occhi che fissano i telefonini con le foto della grande fuga e i volti dei familiari rimasti laggiù. Shekib Nooristami non ha paura di dire il suo nome. «Ho fatto l’accademia in Italia, poi nel 2013 sono tornato in Afghanistan e sono diventato colonnello dell’esercito. Da alcuni anni lavoravo con l’ambasciata americana. Per giorni, quando i talebani avanzavano, abbiamo aspettato che gli americani ci portassero via. Per sei volte sono stato respinto ai cancelli. Poi una notte mi sono buttato nella fogna con mia moglie e mia figlia di 6 anni sulle spalle. Non respiravo, provavo a issarla su ma non ci riuscivo. Sono stati i paracadutisti italiani a tirarci fuori da quell’inferno».

La famiglia nascosta ai talebani

Non c’è wi-fi qui e non c’è possibilità di contatto con amici e parenti. «È troppo pericoloso, potreste essere localizzati. Niente nomi né foto. I talebani guardano la tv italiana», li ammoniscono gli operatori della Croce Rossa. Ma in tanti hanno voglia di raccontarsi. Sono famiglie della media borghesia, parlano inglese, molti anche italiano. Uno dei pochi anziani, nonno di una famiglia di 57 persone tutte in salvo, si schermisce quando riceve il kit di prima accoglienza. Arya sfoga la sua angoscia: «Sono qui con due fratelli, lavoravo con gli americani, dovevo fuggire o mi avrebbero ucciso. La mia famiglia è rimasta lì. È nascosta in una zona controllata dai talebani. Ora l’Italia deve aiutarmi a portarli via».

Nouri e la piccola Hina

Il futuro non può che avere il volto di Hina, nata a Sulmona poche ore dopo l’arrivo della giovane mamma, grazie all’aiuto di Nouri, mediatore afghano della Croce Rossa. Non conoscerà mai il suo papà, fucilato dai talebani. Nouri ieri è tornato in ospedale, si è commosso riprendendola in braccio: «Le auguro un giorno di poter conoscere un Afghanistan diverso, in pace».
 

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