“Si torna in ufficio”. Ma il diktat di Iren agita i sindacati

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ROMA – Tutti in ufficio da settembre. Se il ministro per la Pa Renato Brunetta ha espresso l’auspicio che si torni entro la fine del mese alla «modalità ordinaria di lavoro in presenza, tanto nel pubblico quanto nel privato», tra le aziende qualcuno si è mosso ancora più rapidamente. Iren, la multiutility dell’energia partecipata dai Comuni di Torino, Genova e Reggio Emilia, ha deciso di far tornare tutti in ufficio all’inizio di settembre, decisione contestata all’unanimità dai sindacati che hanno dichiarato lo stato di agitazione.

«Iren è l’unica azienda per la quale lo stato di emergenza è finito – ironizza Antonio Pepe, segretario nazionale Filctem Cgil – È arrivata da sola a una conclusione di merito per cui lo smart working non è uno strumento di lavoro che può essere utilizzato in futuro, al di là del la pandemia, se non per un giorno la settimana». In un comunicato l’azienda (che si è avvalsa dell’accordo firmato nel 2019 con i sindacati, che prevede il lavoro da remoto uno o due giorni la settimana, e si dichiara disponibile a una nuova trattativa), definisce lo smart working «un’esperienza positiva nel contesto pandemico» che però ha fatto emergere «alcuni aspetti critici, come la diminuzione delle relazioni dirette e la marginalizzazione di persone con minori competenze digitali».

Una visione non troppo distante da quella del ministro Brunetta, certo inoltre che il rientro in presenza possa dare una spinta ulteriore alla crescita dell’Italia, e ieri a Cernobbio ha chiesto che il green pass diventi «una sorta di passaporto di sicurezza» per il lavoro pubblico e privato.

Ma molti sindacati non ci stanno, intanto perché, osserva Marco Carlomagno, segretario generale Flp, «si rischia di innescare un ritorno al passato, ripristinando modelli organizzativi burocratici e ipergerarchici che allontanerebbero sempre più la Pa dal Paese», ma anche perché, sottolinea, Tiziana Cignarelli, segretaria generale Flepar , il green pass «verrebbe equiparato in modo inappropriato a garanzia di sicurezza».

Quanto al settore privato, la vertenza Iren, assicura il segretario generale Fim Cisl Roberto Benaglia, «è solo la punta dell’iceberg: c’è tutto un movimento di “stabilizzazione”, favorito anche da un vuoto normativo perché la legge dà la possibilità alle aziende di regolare in autonomia lo smart working fino alla fine dell’anno e non c’è obbligo di trattare con i sindacati anche se la maggioranza lo sta facendo. Non si può pensare che a gennaio si torni all’accordo individuale previsto dalla legge 81: mi auguro che il governo convochi le parti sociali per regolare e utilizzare questo strumento coniugando produttività e flessibilità».

Archiviare il lavoro agile sarebbe un grave errore, avverte Mariano Corso, responsabile scientifico dell’Osservatorio Smart Working del Politecnico di Milano: «Non si tratta di lavorare a casa propria, ma di alternare lavoro in presenza e da remoto misurando gli obiettivi, una modalità che è ampiamente accettata in settori dove già si riconosce un certo livello di autonomia professionale ai dipendenti, come i servizi digitali, la finanza, le telecomunicazioni, e si fa fatica invece a valorizzare in aziende tradizionali, come quelle del manifatturiero, in cui c’è una larga quota di lavoratori che deve comunque lavorare in presenza».
 

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