KABUL – Più si sale, più s’allungano le barbe e più coperte c’appaiono le donne che riusciamo a sbirciare all’interno delle case di fango, rinfrescate da una mano di pittura celeste o verde pistacchio. Siamo nel quartiere di Dehmazang, arroccato sulla ripida parete dei monti che a occidente sovrastano la città. “Con l’arrivo dei talebani, per il popolo di Kabul non è ancora cambiato nulla”, dice Malea, 65 anni, madre di nove figli, quattro dei quali tossicodipendenti.
La sua spelonca si apre su un cortiletto, dove saltellano un paio di galline sporche. Quando le chiediamo di rispondere a qualche domanda sul nuovo regime, c’invita a entrare in una stanza spoglia, con cuscini logori lungo le pareti. “Vent’anni fa mi obbligarono a indossare il burqa. Stavolta no. O almeno non ancora. Spero soltanto che adesso che hanno finalmente conquistato il potere, non ci saranno più i terribili attentati che hanno per decenni funestato il Paese. Oggi, sono loro i padroni. Averne paura non serve a nulla. Se decidono di ammazzarci tutti, nessuno potrà impedirglielo”.
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La lunga tragedia afghana, cominciata con l’invasione sovietica nel 1979, è stata segnata da periodi in cui non passava giorno senza l’esplosione di un ordigno. Nel 2018, l’ultima volta che venni a Kabul, nella stessa settimana un attacco islamista provocò quaranta morti all’Hotel Intercontinental e una bomba novantacinque nel cuore della città. Agli occidentali era vietato perfino uscire di casa a piedi. “Ma se prima c’era una sorta di coprifuoco notturno nel timore d’imbattersi la notte in una banda d’insorti, oggi c’è comunque la paura d’incrociare un pick-up carico di talebani-poliziotti”, continua Malea.
Quando le chiediamo se dal precedente governo riceveva un qualsiasi sussidio, scoppia a ridere: “No, nulla. Erano politici corrotti, al soldo dell’America, che hanno favorito soltanto le élite. Sono fuggiti tutti con la coda tra le gambe, con valigie cariche di dollari. Non so che cosa aspettarmi dai talebani, ma spero che non siano ladri come chi li ha preceduti”.
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Riprendiamo l’ascesa verso le ultime case del quartiere. Tra gli alti gradini di pietra grezza, dove c’è un incessante viavai di bambini carichi di bidoni d’acqua che vanno a raccogliere a valle, corre il canale della fogna. Arrivati quasi in cima a Dehmazang ci riceve Omran, 52 anni, insegnante di scuola, nella sua casa fresca e ventilata, ma che tra pochi mesi sarà spazzata dai venti diacci del Pamir. “Dai talebani non avremo nulla, perché sono troppo poveri per offrire qualcosa agli afghani. Sono venuti pochi giorni fa a chiedere cibo e uomini per la guerra nel Panshir. Ovviamente se ne sono andati senza né l’uno né gli altri, perché di cibo ne abbiamo appena per sfamarci noi stessi e perché gli uomini di Kabul hanno già combattuto troppe guerre”.
La settimana scorsa, le Nazioni Unite hanno lanciato l’allarme su un’imminente crisi alimentare in Afghanistan: nel Paese, che dipende soprattutto dagli aiuti internazionali, le scorte di cibo sono destinate a terminare entro la fine del mese se la comunità non si mobiliterà al più presto per stanziare nuovi fondi e inviare aiuti. “Quello che mi spaventa è la gestione del Paese da parte degli “studenti coranici”. Temo che non saranno capaci di mandare avanti un Paese come il nostro, ancora profondamente diviso e con un’economia molto malmessa. Se dovessero fallire c’è il rischio di una grave carestia e di una spaventosa crisi umanitaria”, aggiunge l’insegnante.
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Già, è un compito immane governare uno dei Paesi più poveri del mondo, sul quale aleggia lo spettro di una guerra civile sia pure con gli stessi attori di sempre. “Il prezzo dello zucchero, dell’olio e della farina è già parecchio aumentato. Dall’inizio di agosto, quando la mattina vado a fare la spesa mi aspetto sempre una brutta sorpresa. Di questo dovrebbero occuparsi i talebani, di far calare i prezzi, piuttosto che dell’abbigliamento delle studentesse. E poi che cosa aspettano a formare il governo? C’è da chiedersi quali lotte intestine si stiano combattendo nei palazzi del potere. Mi auguro che il nuovo esecutivo piaccia anche a chi ci ha sempre aiutato, e cioè agli occidentali”, conclude Omran.
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L’ultima casa di questo malconcio quartiere sembra appoggiata a un grosso masso ocra e appartiene a Noor, proprietario di una piccola impresa edile. La prima stanza è interamente occupata da coperte e piumini, che saranno indispensabili quando la temperatura scenderà sotto lo zero. Nella seconda vive Noor assieme alla sua numerosa famiglia. “Quello che più mi preoccupa dei talebani è che non sono gente di città. L’avevano già dimostrato tra il 1996 e il 2001, quando non riparavano le strade, non restauravano le case che cadevano in rovina, non costruivano nulla ma semmai distruggevano con l’esplosivo tutto ciò che dava loro fastidio”, spiega.
“Temo che non siano cambiati. La nostra città ha bisogno d’innumerevoli interventi che verranno certamente rinviati all’infinito. Le loro priorità sono altre. Ma si può pregare anche in una casa stabile e sicura. Non soltanto in una grotta come hanno fatto negli ultimi vent’anni”.