Kabul– “Ogni nostra azione, come la riconquista dell’Afghanistan, viene compiuta solo per il bene dell’Islam”. È questa la frase-mantra usata dal talebano Mohammed Amin Ullah per tirarsi d’impaccio dalle domande più sgradite. Venticinque anni, soldato semplice dell’esercito che in pochi mesi ha sconfitto le truppe lealiste e il più potente esercito del pianeta che le sosteneva, Ullah ha una barba ispida, scura e polverosa. Dimostra qualche anno di più, probabilmente per i tanti inverni trascorsi in montagna a combattere, e per le privazioni e gli stenti che confessa d’aver subito.
“Sono talebano da quando avevo dieci anni”, esordisce sorridendo. “È da allora che ho cominciato ad ammirarli, quando mio padre offriva un nascondiglio a casa nostra, durante una loro improvvisa ritirata dal fronte o prima di un’offensiva. Erano i miei eroi. Perciò appena ho compiuto 17 anni, mi sono unito a loro”, racconta.
Ha poi seguito un addestramento militare? “No, ho imparato da solo a sparare con il kalashnikov e con il lanciarazzi Rpg. I miei capi mi hanno però imposto un insegnamento religioso”. In una scuola coranica? “No, nelle moschee dei villaggi che occupavamo l’inverno”.
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Sinceramente, prima di ieri mattina, non pensavamo che fosse possibile intervistare uno studente coranico sulla sua vita, le sue guerre, i suoi sogni. Il primo al quale ci siamo avvicinati, accovacciato all’ombra di un Humvee abbandonato dall’esercito americano, ci ha subito teso la mano. Masticava un po’ d’inglese, aveva il volto quasi interamente coperto da un passamontagna e al polso portava un grosso orologio subacqueo. Ma dopo aver scambiato qualche frase, ci ha detto che non gli era permesso parlare con un occidentale.
Il secondo ci ha guardato con disprezzo, quasi schifato, ci ha voltato le spalle e s’è allontanato di buon passo senza pronunciare una sola parola. Il terzo era finalmente quello buono, Ullah, che abbiamo scovato seduto all’ingresso di un ministero, di fronte a una strada molto trafficata. Gli abbiamo chiesto di spostarsi, e lui ci ha seguito dietro un muro di cemento armato, che attutiva il rumore del traffico, dove abbiamo cominciato a fargli le nostre domande.
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Ullah è nato nel distretto di Chora, in provincia dell’Oruzgan. “Ma ho combattuto quasi sempre nelle montagne della provincia dell’Helmand. È lì che era basata la mia brigata”. Ha ucciso tanti uomini? “Sì, tantissimi”. Ma quanti? “Non lo so!”, risponde scoppiando a ridere. “Non li ho mica contati, anche perché era spesso impossibile farlo. Quando lanci una granata non sai quanti soldati colpisci. Lo stesso discorso vale quando fai esplodere un ordigno sul ciglio della strada al passaggio di un veicolo militare. Devi solo accertarti che l’hai colpito. Non vai di certo a contare i cadaveri”.
Anche se la risposta è scontata, non possiamo non chiedergli degli attentati talebani tra i civili che negli ultimi vent’anni hanno funestato il Paese, con i kamikaze spediti dai mullah a compiere stragi nei mercati, nelle piazze o davanti alle scuole. Non lo scoprivate alla radio il giorno dopo, il numero dei morti? Prima di rispondere, Ullah ci pensa qualche secondo, poi pronuncia la sua frase-mantra sulle azioni compiute soltanto per il bene dell’Islam.
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Gli chiediamo poi il senso della feroce lapidazione delle donne adultere, interrate fino al collo. Anche stavolta la sua risposta è prevedibile: “È soltanto l’applicazione della Sharia”. E la legge islamica prevede anche che le persone vadano ammazzate frustandole con le catene di bicicletta, come facevate voi talebani? Visibilmente infastidito, Ullah recita nuovamente la sua frase-mantra.
Per evitare che si alzi e se ne vada, cambiamo discorso. Gli chiediamo chi sono stati i soldati più agguerriti contro cui ha combattuto, gli afghani o gli americani? “Erano mille volte più coraggiosi gli afghani, con i quali ho anche avuto degli scontri corpo a corpo. Gli americani la guerra contro di noi l’hanno fatto solo bombardandoci con i droni. Per loro, l’Afghanistan era un videogame”. Ullah racconta poi di aver trascorso buona parte degli ultimi anni nascosto in montagna. Ma capitava anche che, l’inverno, quando la neve rendeva impraticabili le strade, la sua brigata occupasse alcuni villaggi di pastori dove rimaneva fino a primavera. Tre anni fa, in uno di questi, ha trovato moglie ed è oggi padre di due bambini.
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Alla domanda se è consapevole del difficilissimo compito che spetterà al neonato esecutivo di Kabul per governare un Paese in miseria e ancora profondamente diviso, Ullah risponde con disarmante sincerità: “Sì, conosciamo i nostri limiti e le nostre debolezze. Incontreremo perciò enormi difficoltà per mandare avanti l’Afghanistan, ma faremo del nostro meglio per evitare che ricada un’altra volta nelle mani degli infedeli. Contiamo anche sull’aiuto dei Paesi musulmani che ci sono vicini. Primo tra tutti, il Pakistan”.
Arrivano altri talebani. Gli urlano parole incomprensibili al nostro interprete. Ullah si alza e fa per andarsene. Un’ultima domanda, se non le dispiace. Ma perché ha accettato di chiacchierare con l’infedele che sono ai suoi occhi, quando un paio di mesi fa mi avrebbe verosimilmente rapito o accoppato? “Semplice, perché non siamo più “gli insorti”, come ci chiamavano gli americani. Siamo i vincitori. E lei è il nostro benvenuto”