«Nemmeno la biancheria potevo portarle, nemmeno uno spazzolino da denti, qualcosa da mangiare, un po’ di acqua. Giuseppina, la mia Giuseppina, è rimasta sola, a ottant’anni, per quaranta ore, sulla barella del pronto soccorso di uno dei più importanti ospedali di Palermo e noi non sapevamo che fine avesse fatto». Si dispera ancora Franco, ottantadue anni, attivissimo pensionato e volontario Auser, mentre prova a raccontare il calvario della moglie, “intrappolata” nelle regole post Covid degli ospedali italiani e rimasta isolata dal mondo per dieci giorni per un semplice malore.
«Abbiamo festeggiato cinquant’anni di matrimonio, mai lontani uno dall’altra, capite? E’ successo alla fine di agosto, qui a Palermo faceva ancora un caldo infernale. Giuseppina si è sentita male di notte, è svenuta e abbiamo chiamato il 118. Hanno deciso di ricoverarla, con un codice giallo. E qui è iniziato l’inferno. Quando finalmente l’hanno trasferita in reparto, ho aspettato intere giornate davanti al portone di Medicina Interna sperando di poterla salutare e di parlare con i medici». Invano.
Con l’Italia che lentamente riapre, l’ultima frontiera dell’isolamento degli anziani, il luogo dove si resta soli, con l’unico conforto (se va bene) di una visita di un quarto d’ora, è l’ospedale. Fortino ancora inespugnabile ai familiari dei malati. Nonostante i vaccini. Qui le regole anti Covid continuano a impedire le visite di amici e parenti anche ai pazienti dei reparti “normali”, non Covid cioè, non nelle terapie intensive. Chi entra deve avere il Green Pass, può fermarsi pochissimo, magari non tutti i giorni e pure su prenotazione. Oggi sì, domani no.
Così, un rischio che si sovrappone al rischio sanitario, è quello di ammalarsi di un male altrettanto grave: la solitudine. O la depressione. Già male oscuro della terza e quarta età. Deporre le armi contro la malattia. In particolare per i più fragili, gli anziani. Non solo. Senza più un familiare accanto e nell’endemica carenza di personale, accade che al di là delle terapie, del pranzo e della cena, nessuno si occupi di tutte quelle cose che rendevano umana una degenza.
Franco è accorato. «Mia moglie mi ha raccontato che le persone allettate accanto a lei non avevano nessuno che le aiutasse a pettinarsi, a lavarsi i denti, a cambiare una camicia da notte. Nessuno che le consolasse. Soltanto altri malati intorno». Cambierà tutto questo con la vaccinazione di massa? O la disumanizzazione dell’ospedale è uno scenario al quale dovremo abituarci? Eppure i familiari sono fondamentali. Sono il diaframma tra i medici e pazienti, sono gli affetti e l’aria di casa che allevia il dolore.
I reparti e le regole
Il Covid, all’inizio del 2020, ha travolto ospedali che avevano fatto enormi progressi in fatto di apertura nei confronti dei visitatori. «Da noi – spiega Nicola Montano, primario di una delle medicine del policlinico di Milano – I visitatori potevano stare con i ricoverati dalle 11 alle 20». C’erano persone che trascorrevano giornate intere con i familiari anziani, restavano anche a pranzo e cena, aiutavano in quei dieci giorni che può durare un ricovero. Non si contano le esperienze di apertura anche di reparti assai delicati come le rianimazioni.
Tutto è stato cancellato dal Covid. Per due volte, dopo la prima ondata, gli ospedali sono stati blindati. A luglio il decreto 105 ha dato la possibilità di «permanere nelle sale di attesa dei reparti», oltre che dei pronto soccorso. Tanto è bastato per far ripartire le visite, con il contagocce. Montano ha deciso di far entrare per circa mezzora i visitatori, alternando qule stanze. Altrove, invece, si permette di stare dentro solo un quarto d’ora. «In Emilia molte strutture chiedono di prenotare prima e a volte fanno passare un giorno sì e un giorno no», dice Marisa Monticelli, responsabile regionale dell’Avo, l’associazione di volontari ospedalieri che appunto fanno compagnia ai pazienti. «Oggi solo una persona può fare la visita – dice – un tempo l’anziano riceveva la moglie ma anche l’amico, il figlio. Così le giornate, scandite da più persone, si riempivano. Oggi è impossibile».
Dario Manfellotto, direttore della medicina interna del Fatebenefratelli di Roma e presidente Fadoi, la Federazione nazionale che riunisce i medici della sua disciplina, spiega che le eccezioni ci sono ovunque. «Noi se vediamo un anziano in grande difficoltà diamo il permesso, allunghiamo i tempi di visita». E se la fine è vicina si permette una presenza più assidua dei parenti.
“Non si tornerà più indietro”
«Siamo in uno scenario diverso, la sanità negli ultimi 18 mesi è cambiata, come è cambiato il mondo. Non torneremo ad avere ospedali tutti aperti». A parlare è Giovanni Migliore, presidente della Fiaso, la Federazione delle aziende sanitarie e ospedaliere e direttore del policlinico di Bari. Anche se l’infezione si ritirerà, gli ospedali continueranno ad essere posti da proteggere, perché accolgono persone fragili. «Dobbiamo cambiare, anche con l’aiuto del Pnrr, gli spazi di cura. Puntare sul domicilio, sulle strutture per le cure intermedie. Gli anziani andranno assistiti in modo diverso». E quando dovranno per forza andare in ospedale non potranno avere accanto i loro cari molto a lungo.
La volontaria e la tecnologia
Il Covid tiene fuori dagli ospedali anche i volontari, che un tempo facevano compagnia a chi era solo. Così ci si organizza, con l’aiuto della tecnologia. «È capitato che ci siamo recati in certi reparti, ad esempio a Modena, con un tablet per permettere a un anziano solo di comunicare con i familiari a distanza», dice ancora Marisa Monticelli di Avo Emilia-Romagna. «Sentiamo quanto sia pesante la solitudine per molte di queste persone. I visitatori stanno poco e anche noi non possiamo, salvo casi eccezionali, entrare».
Lo strazio della lontananza
Franco è uno che non arrende. Da volontario Auser assiste chi ne ha bisogno. L’angoscia per Giuseppina però ha lasciato un segno. «Mia moglie è stata inghiottita dall’ospedale. Siamo scesi dall’ambulanza e non l’ho più vista per dieci giorni. Pochi? Non per una donna di ottant’anni che si ritrova smarrita e sola». E nella somma dei mali endemici dei pronto soccorso, in particolare del Sud e i divieti anti- Covid, Giuseppina è finita in una trappola di malasanità. “Visto era ancora su una barella, non ancora ricoverata, non aveva diritto ai servizi ospedalieri, quindi, per due giorni, non le hanno dato né da mangiare né da bere. Per le regole sul Covid però è vietato far entrare negli ospedali cibo portato da casa, addirittura la biancheria. Capite? Loro non le davano niente – incalza Franco – e io non potevo farle arrivare un po’ d’acqua, un panino, niente. Il suo cellulare era ormai scarico. Stavo diventato pazzo. Sapete come ho fatto? Ho chiesto un piacere a un infermiere del turno di notte che ha avuto pietà di me».
Dopo due giorni Giuseppina ottiene un letto. Ricarica il cellulare. Franco risente finalmente la sua voce. Flebile. Lontana. Riesce a farle arrivare una camicia da notte. Le visite però restano vietate. «Ero sempre lì, seduto su una panca, nonostante il vaccino, nonostante il green pass. Così, dicevo alle infermiere di far sapere a mia moglie che io ero lì fuori e di non preoccuparsi”. Giuseppina ce l’ha fatta, è tornata a casa. Franco continua a tenerle la mano.