MANSOURA – A guardarlo da vicino Patrick Zaky dopo un anno e mezzo di prigione assomiglia sempre meno al volto sorridente che appare sui manifesti esposti nelle piazze italiane. E’ dimagrito e ha perso le guance rotonde delle foto: al loro posto c’è una barba folta, che gli incornicia tutto il viso. I capelli lunghi sono raccolti in un codino e la divisa bianca dei carcerati egiziani gli dà un aspetto severo. Il suo volto torna a distendersi quando si sente interpellare nella nostra lingua: “Te lo ricordi ancora l’italiano, Patrick?”. Si volta di scatto, sorpreso: “Sì, così così. Io studio”, dice, senza nascondere la sorpresa. Il sorriso si illumina, ma è un attimo. Subito uno dei poliziotti che gli sta di guardia nella gabbia dell’aula di tribunale di Mansoura, ci manda via: solo gli avvocati sono autorizzati a parlare con i prigionieri. Passa qualche minuto e si apre un altro spiraglio. Come stai?, gli chiediamo, stavolta in inglese. “Bene, sto bene, non è poi così male qui”, risponde. Lo sai che c’è la tua faccia in tante piazze italiane? Che c’è tanta gente mobilitata per te? “Sì. Lo so. Me lo hanno detto. Grazie. Grazie davvero a tutta l’Italia”. E che il Bologna calcio non va tanto bene? “So anche quello, ma io continuo a tifare per loro”. C’è qualcosa che vuoi dire a chi leggerà questa storia? “Che torno presto. Io torno presto. Voi non vi dimenticate di me”. La finestra di tolleranza si chiude qui, in aula entra il giudice e il braccio di ferro che oppone questo studente di 28 anni allo lo Stato egiziano riparte.
Patrick Zaky
E’ stata un’udienza tesissima quella di ieri di fronte al tribunale speciale di Mansoura, la città al Nord del Cairo di cui è originaria la famiglia Zaky. Gli avvocati del giovane nei giorni scorsi avevano fatto capire che si aspettavano un verdetto definitivo, dopo 18 mesi di detenzione preventiva, e in aula c’era il pubblico delle grandi occasioni: i rappresentanti delle ambasciate di Italia, Canada e Spagna (la rappresentanza italiana non ha mai mancato di presenziare alle udienze in questi mesi). La stampa internazionale. Gli amici di Patrick e un gruppo di avvocati venuti per seguire questo procedimento diventato ormai famoso. Ma la parola fine non c’è stata: la richiesta dell’avvocatessa della difesa, Hoda Nasrallah, di avere i documenti su cui sono basate le accuse – finora i legali di Patrick non hanno avuto accesso alle carte, le hanno potute consultare per la prima volta dieci giorni fa – ha portato il giudice ad infliggere all’imputato il più lungo dei rinvii del caso. Sette settimane: appuntamento in aula il 7 dicembre. “E’ una cosa assurda”, sbotta Nasrallah all’uscita, senza nascondere la rabbia per una vicenda che a lei, come a tanti altri, appare di giorno in giorno più assurda.
Proprio questo infatti è il paradosso della storia di Patrick Zaky: con il tempo invece che chiarirsi si fa più oscura.
“Così l’Egitto discrimina noi copti”: l’atto di accusa contro Patrick Zaky
di
Patrick Zaky
14 Settembre 2021
Così è solo da pochi giorni che Nasrallah e il team dell’Egyptian iniziative for personal rights (Eipr, l’ong con cui collaborava il giovane) hanno appreso che contro di lui pendono sei capi di accusa. Tre sono quelli originari, che si possono riassumere nella formula di diffusione di notizie dannose contro lo Stato egiziano via Internet. Uno è stato aggiunto nei mesi scorsi, senza alcuna notifica: essere membro di un gruppo terroristico. Gli ultimi due sono quelli relativi all’articolo scritto nel 2019 sulla situazione dei copti in Egitto e pubblicato dalla rivista on line Darraj: diffusione di notizie false all’interno del Paese e all’esterno. Solo di questi ultimi due Patrick era chiamato a rispondere ieri a Mansoura: con il dettaglio, non di poco conto, che se anche fosse stato assolto le altre accuse sarebbero rimaste in piedi, costringendolo forse a restare in carcere e di certo a non lasciare il Paese. In tutto, si parla di una pena fra i dieci e i dodici anni.
Di tutto questo Patrick ieri sembrava pienamente consapevole, nonostante le sue parole ottimiste. In gabbia, non riusciva a stare fermo un attimo: si passava le mani fra i capelli, dondolava da gamba all’altra, giocava con la bottiglia d’acqua che aveva con sé. Sempre con lo sguardo fisso sugli amici e i familiari. “Fa male vederlo così, non poterlo neanche abbracciare”, sussurrava dietro la mascherina Marise, la sorella minore, stretta in un banco assieme al padre. “Ormai siamo costretti a sperare che lo condannino: a una pena lieve, che tenga conto dei mesi che ha già passato in cella. Ma che almeno ci dia la prospettiva di una fine. Tutto quello che vuole lui è tornare a studiare: tornare a Bologna. Lo ripete ogni volta che lo incontriamo”.
L’ultimo appello di Patrick Zaky: “Ora basta, sono innocente”. Ma l’accusa chiede cinque anni
di
Francesca Caferri
14 Settembre 2021
Suona la campana: un impiegato annuncia la sentenza. Patrick è già uscito, non può sentirla. Gliela grideranno fuori dal tribunale gli amici prima che il blindato blu in cui è rinchiuso lo riporti al Cairo. Marise è fra loro: alza le mani per salutare il fratello e sul polso destro si vede un tatuaggio. Recita, semplicemente, “Patrick”: accanto c’è una farfalla che vola via. “L’ho fatto un anno fa, è quello che spero”, dice la ragazza prima di andare. Un sogno che anche questa volta dovrà aspettare.