Il senatore Andrea Marcucci è sfortunato in casa propria. Nel Pd tutti sospettano che sia la quinta colonna di Matteo Renzi, una specie di infiltrato in missione speciale, sebbene non troppo coperta, un entrista, avrebbero detto i trotzkisti di una volta. Ma anche nel collegio di casa, nella Lucchesia – è nativo di Barga, Garfagnana – alle elezioni del 2018 non andò benissimo: terzo arrivato, il seggio in Senato recuperato solo grazie al listino bloccato, quantomeno senza dover andare a Bolzano come Maria Elena Boschi.
Si racconta che Marcucci, già giovane brillante parlamentare del Partito liberale italiano, l’estrema destra del Pentapartito, una famiglia impegnata nella farmaceutica, la sorella Marialina editrice dell’Unità nonché della mitica Videomusic, poi venduta a Vittorio Cecchi Gori, abbia pianto il giorno della scissione di Renzi. Di sicuro non ha mai rinnegato l’amicizia con l’ex premier, e certo questo non è un disonore. Più perplessi restarono i suoi colleghi dem quando Marcucci salutò il caro leader ormai scisso così: “Resta un amico, gli auguro di raggiungere i suoi obiettivi”. Erano i giorni in cui Renzi spiegava di voler asfaltare il Pd. Ma forse Marcucci si riferiva a obiettivi personali e professionali.
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Certo è però che restare nel partito senza più il magistero renziano lo ha esposto a una sgradevole situazione, quella di coltivare posizioni e strategie che sfiorano un tasso del 100% di dissenso dal Pd e, contestualmente, un analogo tasso di consenso alle posizioni di Italia viva. A Marcucci non è piaciuto alcuno dei segretari dopo Renzi. Di Maurizio Martina, reggente, non aveva una cattiva opinione, anche perché, disse, “il faro resta Renzi”. Di Nicola Zingaretti, che si pentì presto di non averlo rimosso da capogruppo in Senato, pensava invece molto male (“Vuole rifare i Ds”) e sognava di sostituirlo a congresso con il governatore dell’Emilia Romagna Stefano Bonaccini. Forse non fu un caso che Marcucci fosse l’unico big del partito non invitato alla Festa dell’Unità 2020.
Di Enrico Letta ha pensato bene nella prima intervista concessa dopo la sua elezione, ma ha cambiato idea quando il neosegretario ha deciso di non seguire la linea Zingaretti e lo ha rimosso dal ruolo in Senato per sostituirlo con Simona Malpezzi, altra ex renziana (le liste elettorali del Pd per Palazzo Madama erano state costruite a immagine e somiglianza del leader, sebbene nessuno potesse rivaleggiare con l’osmotica somiglianza dell’allora presidente dei senatori).
Marcucci non l’ha presa bene né ha accettato l’argomento che occorresse una donna capogruppo: “Allora perché non una segretaria?”, obiettò a Letta durante l’incontro decisivo per la destituzione. Il segretario tirò dritto e Marcucci sfogò la rabbia in un post Facebook: “Volete un partito del capo dove non si discutono le decisioni del capo?”. Una domanda che tradiva la nostalgia marcucciana per l’epoca perduta della collegialità e del pluralismo, quando Renzi guidava il Pd come Socrates lo spogliatoio del Corinthians, autogestione e “democrazia corinthiana”.
Intervistato a cadenza bisettimanale dal Foglio, che forse apprezza il copioso numero di volte in cui Marcucci declina la parola “riformista”, l’ex capogruppo dem fece infuriare anche Dario Franceschini. Il ministro della Cultura, impegnato a tenere strette le maglie del lockdown durante le ultime festività natalizie, ebbe un coccolone quando lesse la mozione parlamentare a favore della libera circolazione nei piccoli comuni. Firmata Marcucci, ovviamente.
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Più di un retroscena giornalistico, dopo la sostituzione con Malpezzi, attribuì a Marcucci la frase: “Ora partono le vendette”. Ma non esiste prova che l’abbia pronunciata davvero. Per qualcuno, invece, la prova sarebbe in quello che è accaduto l’altro giorno in Senato sul ddl Zan. Marcucci giura di aver votato in conformità alle indicazioni del gruppo e non si capacita che nel partito tutti lo guardino come De Sica in Compagni di scuola quando sparivano le 400 mila lire dalla giacca del macellaio.
Di certo da settimane la sua posizione era analoga a quella di Renzi: trattiamo con la destra, modifichiamo il testo, rinviamo il voto. Come l’ex premier, anche Marcucci ritiene che i fatti gli abbiano dato ragione e da un paio di giorni si aggira sui media come un Montecristo della Garfagnana: “Sulla Zan il Pd ha sbagliato dall’inizio”. E ancora: “Le responsabilità sul fallimento vanno equamente divise”. Cinquanta per cento al Pd e cinquanta per cento a Italia viva. E non un collega del Pd, tra quei disgraziati e malfidati, che abbia almeno apprezzato l’unica volta in cui Marcucci ha messo il suo partito alla pari di quello di Renzi.
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