SUL TRENO DA NUR-SULTAN AD ALMATY – Sul treno che avanza a fatica nella notte kazaka, tagliando da nord a sud la steppa glaciale dove il termometro scende a meno 27 gradi, Almaty è soltanto l’ultima stazione di un viaggio interminabile. Il capolinea che, per chi è salito nella capitale Nur-Sultan, si raggiunge dopo 4 fermate e 14 ore di paziente attesa. Ma Almaty è anche la soluzione all’enigma. Quello che è accaduto lì il 4 gennaio, dal tramonto all’alba di un giorno complicato, spiega le epurazioni del presidente Tokayev. Il quale, ormai, non ha più remore a parlare di “tentato colpo di Stato”.
Chi c’era racconta di un improvviso abbandono del campo da parte delle forze di polizia. Poche ore che sono bastate però a gruppi di violenti armati e organizzati per prendersi la città, metterne a ferro e fuoco i palazzi delle istituzioni e l’aeroporto, saccheggiare il saccheggiabile. Chi si è trovato nei pressi della centrale piazza della Repubblica, avvertiva qualcosa nell’aria. Giravano voci secondo cui, al calar del sole, sarebbe stato meglio tornare a casa, e in fretta, perché qualcosa di grave poteva accadere. “Ero a cena con la mia compagna kazaka in un ristorante lì vicino”, spiega a Repubblica Marco P., quarantenne romano che da una settimana è bloccato ad Almaty.
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“Mentre mangiavamo gli amici la avvertivano via chat di disordini incombenti e di possibili scontri”. Anche Marco ricorda l’improvviso sparire degli uomini in divisa che fino al pomeriggio avevano monitorato, contenendola, la protesta pacifica di qualche migliaio di persone per chiedere riforme e migliori condizioni economiche. Tanto più strano, il passo indietro, in un regime come questo, dove, per dirla con uno dei testimoni della carneficina di Almaty (107 morti, secondo il governo) “di solito anche per una manifestazione di tre o quattro donne arrivano 300 soldati”.
Dice dunque Tokayev: “Ad Almaty sono comparsi fanatici religiosi, criminali, banditi, predoni e hooligans che hanno agito come un commando. Moltissimi provenivano dall’estero, combattenti dall’Asia centrale, compreso l’Afghanistan, e dal Medio Oriente. L’obiettivo era minare l’ordine costituzionale e prendere il potere”. E ancora: “Ora che abbiamo il quadro completo, posso affermare che tutti gli eventi sono correlati e sono parte di un unico piano distruttivo, la cui preparazione è durata nel tempo. Se un anno, due o tre, lo chiarirà l’indagine. In altre parole, è stato un tentativo di colpo di Stato”. In videoconferenza con Vladimir Putin e gli altri leader del Trattato collettivo di Difesa (una sorta di Nato locale, che riunisce le cinque ex repubbliche sovietiche dell’Asia centrale), Tokayev ha ricostruito la settimana che ha trascinato il Kazakistan “nella peggiore crisi dall’indipendenza”. E il cui disastroso bilancio peggiora di giorno in giorno: gli arresti sono arrivati a 8mila, i feriti a più di 2mila, un centinaio quelli gravi, 164 le vittime tra rivoltosi, poliziotti e inermi cittadini.
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“È stato un attacco terroristico in contemporanea in undici regioni, ma l’epicentro è stata la nostra capitale economico-finanziaria”. Solo ad Almaty la polizia ha scoperto sette depositi di armi. I banditi erano, nella lettura che ne fa il leader kazako, professionisti ben addestrati. “Avevano cecchini e un proprio sistema per comunicare, si sono mimetizzati con uniformi dell’esercito usando civili come scudi umani. Nella notte hanno assaltato l’obitorio e portato via i cadaveri dei compagni: è una pratica usata dai terroristi internazionali per coprire le loro tracce”. Dal canto suo, Putin parla di “metodi in stile Maidan”, con “forze distruttive, esterne e interne, che hanno approfittato della situazione”, e avverte: “Non permetteremo lo scenario delle cosiddette rivoluzioni colorate”.
Il presidente kazako tuttavia nulla dice del comportamento degli agenti schierati ad Almaty. Sorvola. Non offre nessuna spiegazione sul perché la città, come sostiene l’ala pacifica della rivolta, sia stata lasciata alla mercé dei violenti. Ne accenna alla clamorosa accusa mossa da Yermukhamet Yertysbayev, ex consigliere di Nazarbayev: 40 minuti prima dell’assalto venne dato ordine al cordone di sicurezza dell’aeroporto di tornare a casa. “E infatti lo scalo è stato conquistato da appena 45 rivoltosi, non 800 come da versione ufficiale”, ragiona Dimash Alzhanov, del movimento per i diritti umani “Oyan Kazakhstan”.
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“Fino al pomeriggio del 4 gennaio ad Almaty non è successo niente, la manifestazione di piazza della Repubblica si è conclusa in modo pacifico sotto gli occhi della Guardia nazionale. La sera e la mattina del 5, invece, arrivano persone che prima non c’erano. Alle 11 del 5 gennaio la piazza è in mano ai 4-5mila individui lasciati liberi di dare fuoco al municipio, assaltare l’edificio della tv, circondare la residenza presidenziale”. Quando la polizia torna è troppo tardi. Alzhanov non sa dire con certezza chi abbia sparato per primo, se i ribelli venuti da fuori o gli agenti a guardia della villa del capo dello Stato.
“Abbiamo visto arrivare macchine con i bagagliai pieni di fucili e pistole, c’era gente che distribuiva le armi a chi era lì”. Intorno alle 6 di quel pomeriggio Tokayev licenzia il capo dei servizi segreti (poi lo farà arrestare per alto tradimento) e rimuove l’ex presidente Nazarbayev dalla guida del Consiglio di sicurezza. Dichiara che è in corso un attacco terroristico e chiama in aiuto le truppe di Putin e degli alleati, attivando per la prima volta da quando esiste la clausola di difesa del Trattato collettivo. Alle 9 parla alla nazione.
Rimangono però due domande per il regime kazako: perché, nelle ore cruciali, Almaty è rimasta indifesa? E da chi erano guidati i ribelli che l’hanno devastata?