Novak se ne va, ma i profughi restano prigionieri: come funziona il sistema australiano per i migranti ritenuti illegali

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LONDRA – Novak Djokovic ha lasciato Melbourne sotto le luci dei riflettori dei media, anzi è stato “deportato” come stabilisce il linguaggio ufficiale governativo, anche se l’aereo privato con cui ha fatto rotta sul Dubai non trasmette l’immagine del mesto ritorno in patria di un “clandestino”. Ma in Australia restano migliaia di immigrati illegali, la cui sorte rischia di essere dimenticata, temono le associazioni per la difesa dei diritti umani, ora che si è conclusa la vicenda del campione di tennis No Vax.

I boat people del Park Hotel

La loro presenza ha ricevuto di recente l’attenzione delle cronache perché, in attesa di una decisione giudiziaria e politica sulla sua partecipazione al torneo, Djokovic è stato rinchiuso per qualche giorno al Park Hotel, un albergo trasformato in centro di detenzione per i “boat people” sbarcati illegalmente sulle coste australiane: alcuni dei quali hanno testimoniato di essere “prigionieri” della struttura da nove anni, vittime del limbo in cui è precipitato il proprio status. E lì rimangono, ora che Novak se ne è andato.

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di Enrico Franceschini 07 Gennaio 2022

Il problema è cominciato molto prima dell’odierna polemica collegata allo sport e all’applicazione delle regole contro il Covid. Amnesty International definisce “vergognose” e contrarie al diritto internazionale le norme applicate dall’Australia alla questione dei migranti. Il respingimento in mare e la detenzione dei richiedenti asilo in remote isole del Pacifico, con pochi aggiustamenti e molte violazioni della Convenzione di Ginevra del 1951 sullo status dei rifugiati, sono una costante delle politiche sull’immigrazione del governo di Canberra già dall’inizio degli anni Duemila: l’attuale premier Scott Morrison si limita a continuare nel solco del suo predecessore John Howard.

Operazione “Confini sovrani”

Nel 2001, infatti, il governo australiano firmò un accordo denominato “Soluzione Pacifica” per trasferire nelle isole di Papua Nuova Guinea e Nauru, Stati indipendenti a 5mila chilometri di distanza dalle sue coste, i malcapitati che speravano in un futuro migliore approdando nella terra dei canguri. Dal 2013 le frontiere sono state ulteriormente blindate con l’operazione “Confini sovrani”, in cui il governo minacciava di “intercettare qualsiasi imbarcazione che sta cercando di entrare non autorizzata nel territorio nazionale e di rimuoverla fuori dalle nostre acque”. Il messaggio propagandato da Canberra non presuppone eccezioni: “Se vieni in Australia illegalmente, non avrai modo di ottenere residenza e cittadinanza”.

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Sistema a punti

Davanti alle denunce da parte di associazioni che difendono i diritti umani per il trattamento degli immigrati tenuti per lungo tempo nelle isole del Pacifico, nel 2016 i campi di detenzione sono stati chiusi: da lì sono arrivati al Park Hotel alcuni degli “ospiti” che vi alloggiavano durante la permanenza di Djokovic. Alcune centinaia di immigrati sono stati reinsediati negli Stati Uniti, altri sono stati accolti a tempo indeterminato in Papua Guinea.

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Ma per molti il limbo continua, come per Mehdi Ali, il profugo iraniano da nove anni chiuso nell’albergo di Melbourne, in cui giunse quando era appena quindicenne, pur non essendo stato mai incriminato per nessun reato. In Australia si entra soltanto con un sistema di immigrazione “a punti”, in base al quale ogni richiesta di ingresso riceve un determinato punteggio per fattori come il livello di istruzione, la professione, la conoscenza della lingua, il contratto già promesso e il salario. Un modello citato spesso dal Regno Unito per il proprio futuro sistema di immigrazione dopo la Brexit.

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