ROMA – “A questo punto, dal punto di vista istituzionale, io sono un soggetto passivo e non attivo. Sto a casa con le mie figlie. Ho deciso di non parlare più, di non mandare messaggi, di non fare più niente”. A tarda sera Pier Ferdinando Casini riaccende per qualche minuto il telefonino. Risponde alla telefonata ma calibra con un filo di voce ogni parola.
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Del resto, la situazione suggerisce di restare in silenzio. Il suo nome è tra più accreditati nella corsa alla successione di Sergio Mattarella al Quirinale. Il gioco dei veti incrociati potrebbe portare a lui. All’ex presidente della Camera. Ma si tratta di un equilibrio precario. La candidatura non è ufficiale. Tutti ne parlano. C’è un filo su cui tanti iniziano a sedersi. E su quel filo Casini sta cercando di far salire tutti o quasi tutti.
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In effetti il partito “Pro-Casini” in Parlamento è piuttosto ampio. Prima dell’estate scorsa, lui stesso raccontava: “Nelle aule di Montecitorio e Palazzo Madama ho tanti amici. Sapete, io parlo con tutti”. Da mesi – qualcuno dice da anni – ha studiato il profilo per arrivare preparato all’appuntamento: “Il candidato del Parlamento”. Un’immagine che nelle due aule si è andata rafforzando nel tempo. E che implicitamente ha assecondato quella sottile invidia che la politica ha coltivato nei confronti dei “tecnici”.
Il suo curriculum tutto democristiano, però, lo ha sempre portato a dialogare con tutti. E ad accettare tutti. Tecnici e politici. Così, al suo fianco piano piano si sono schierati trasversalmente diversi esponenti dell’attuale maggioranza. Il primo è stato Matteo Renzi che non ha mai nascosto di vedere in lui la soluzione migliore. Poi Dario Franceschini, il ministro Pd dei Beni Culturali. Praticamente quasi tutta Forza Italia, a cominciare da Antonio Tajani. E quindi l’intero arcipelago neocentrista: da Toti all’Udc di Cesa passando per quell’immenso corpaccione del gruppo Misto.
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Ora però è l’ora del silenzio. Il suo motto è diventato: “Fratello, silenzio”. E ancora al telefono ripete: “Dovete capire che in questo momento, una parola è poca e due sono troppe. E comunque a questo punto non so più niente. E soprattutto non voglio sapere più niente. Si vedrà”.Di certo, però, questa è davvero la sua partita della vita.
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Come dice il segretario dell’Udc, Lorenzo Cesa, da tempo suo amico, “stavolta Pier è davvero in campo”. E lo è con le sue armi. Con il “democristianesimo” capace di accontentare tutti. A destra e a sinistra. E’ stato con il centrodestra di Berlsconi e quattro anni fa è stato eletto al Senato con il Pd a Bologna. I nemici si contano sulle dita di una mano. “E’ uno dei pochi – raccontava ad esempio a novembre scorso Ignazio La Russa, “colonnello” di Fratelli d’Italia proveniente dalle fila dell’Msi – che è venuto al funerali di mio fratello”.
Ha rotto con il Cavaliere ma poi lo ha chiamato ad ogni compleanno e anche in questi giorni di degenza. Ogni peso per lui ha un contrappeso. Anche quando era presidente della Camera in una legislatura complicata, dominata dal berlusconismo. Una mano alla maggioranza, una concessione all’opposizione. Per molti la natura democristiana si è innestata sul ruolo istituzionale, come quello ricoperto cinque anni fa con la presidenza della commissione d’inchiesta sulle banche.
La scuola Dc, però, è la sua vera prima bussola. Con Bisaglia e poi con Forlani. Il primo lo ha introdotto ai piani alti di Piazza del Gesù. Alla prima riunione di corrente con “big” piuttosto concreti nell’esercizio del potere, al termine si è rivolto al suo mentore con una frase che nessuno ha mai capito se fosse ironica o meno: “Un meeting di cultura”. Anni dopo, mentre imperversa Mani pulite e il Cavaliere si affaccia sulla scena politica, chiede ad un imprenditore di Bologna: “Ma com’è questo Berlusconi?”. Quello gli risponde: “Non gli dire sì perché ti fagocita, non gli dire no perché ti distrugge”. “Ecco – ha raccontato successivamente – con Silvio ho fatto proprio così: un po’ sì e un po’ no”.
I trucchi del mestiere li ha appresi a Piazza del Gesù. “Stammi sotto braccio e saliamo le scale – diceva ad un cronista in occasione della cerimonia per l’anniversario dei patti lateranensi di qualche anno fa -. Mi chiedi perché? Perché non bisogna mai farsi vedere da soli in questi ambienti. L’ho imparato dai miei maestri”. Quei maestri gli hanno forse insegnato anche a vivere con distacco le sconfitte e la perdita del potere. Con una sorta di “mediazione dello stato d’animo”.
Appena persa la presidenza della Camera l’amministrazione di Montecitorio gli assegna un ufficio nella cosiddetta altana, la torretta più alta. Il primo giorno ci rimane male perché non gli spediscono la rassegna stampa. Il secondo pure. “Al terzo giorno invece mi sono sentito libero”. Da qualche mese ha ricominciato a guidare la macchina e soprattutto ha ripreso a studiare l’inglese. La “bolognesità” è diventata ormai una espressione costante sui social: tifo per la squadra di calcio e tifo sfegatato per la Virtus basket.
Prima che iniziasse l’ultimo inverno, durante una delle sue passeggiate domenicali a Villa Borghese, parlava del Quirinale con distacco. “La cosa importante è che ci vada uno che mi risponde al telefono”. Se sarà eletto, almeno questo problema sarà risolto.