Mattarella bis, le 48 ore di trattative che hanno sbloccato lo stallo: tra incontri, chiamate notturne e falò di candidati

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Segnatevi questa data: venerdì prossimo, 4 febbraio. Sull’agenda di Sergio Mattarella quel giorno era segnato con un cerchio rosso. Sarebbe andato a cena con gli amici più stretti in un ristorante del centro di Roma. Per festeggiare. Per festeggiare la conclusione del suo mandato presidenziale. L’appuntamento era confermato fino a ieri mattina. Nel giro di qualche ora, però, il programma è saltato.

Per la seconda volta nella storia della Repubblica, un capo dello Stato viene eletto per un secondo mandato. E accade con una valanga di voti: 759. Di più di Giorgio Napolitano. Solo Sandro Pertini ne aveva presi in numero maggiore. “Avevo altri piani – dice Mattarella a voce bassa e con tono distaccato ai capigruppo di maggioranza che salgono sul Colle con il capo cosparso di cenere – ma se serve ci sono. Mi rendo conto della situazione, ne prendo atto”. E anche davanti alla comunicazione ufficiale dell’elezione, resta piuttosto freddo. Ringrazia i parlamentari ma non i partiti. E soprattutto accetta il nuovo mandato sulla base delle “condizioni” di emergenza in cui vive il Paese.

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Ma cosa è accaduto in quelle 24 ore che hanno segnato la fine di tutti i candidati e costretto le forze politiche a ingranare la marcia indietro? Come si è composta la trama di una vicenda che sembra quella di un film? Come è stata stravolta l’agenda personale del capo dello Stato? Tutto inizia venerdì pomeriggio, dopo il gigantesco flop della Presidente del Senato, Elisabetta Casellati. Da quel momento la cinepresa della politica impazzisce. Le inquadrature si inseguono, si sovrappongono. I protagonisti si rubano la scena e si strappano le parti.

Dopo lo psicodramma vissuto dal centrodestra e da Matteo Salvini, il segretario leghista incontra dunque il presidente del Consiglio in un appartamento privato nella zona romana di Piazza Fiume. Sono le quattro di pomeriggio. In quell’incontro il capo lumbard ribadisce a Mario Draghi che non ci sono le condizioni per un suo “trasferimento” al Colle. “Lo avevo già capito”, è in sintesi la risposta del premier. Che poco prima aveva raggiunto al telefono (grazie alla collaborazione di un medico dell’ospedale milanese San Raffaele) Silvio Berlusconi.

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In contemporanea alla Camera parte il sesto scrutinio. I gruppi sono in stato confusionale. Le parole più pronunciate sono due: bianca e astensione. L’Assemblea congiunta è paralizzata. In una sala riservata di Montecitorio si apre un altro set: intorno ad un tavolo si vedono sempre Salvini, il segretario Pd Letta e il capo dell’M5S Conte. Si stila una ennesima rosa di “quirinabili”. Ricompare il direttore del Dis, Elisabetta Belloni. Il primo a fare quel nome è l’esponente grillino. A ruota il segretario leghista. Letta è sorpreso. Non dice “no” ma non dice nemmeno “sì”. Il segretario dem esce dall’incontro e riferisce allo stato maggiore del suo partito. Teme la trappola. Teme soprattutto che prima dell’incontro a tre ce ne fosse stato uno tra Salvini e Conte. In mente gli torna l’operazione condotta nel 1999 da Walter Veltroni e Gianfranco Fini. I due opposti che permisero la nomina al primo scrutinio di Carlo Azeglio Ciampi. È la sera di venerdì scorso. Salvini e Conte tentano il blitz, vanno in televisione lanciano la “donna”.

Il “regista” del film, dunque, sembra sdoppiarsi. A quel punto il Pd reagisce. Viene convocato il summit del centrosinistra: Letta e Roberto Speranza attaccano violentemente l’alleato penstastellato. “Se vai avanti, salta la coalizione. E ti ritrovi da solo. Al governo ci stai con la Lega”. La crisi giallorossa riceve una prima cura. È Matteo Renzi a dare una mano al “nemico” Letta: “Belloni non la votiamo”. Il segretario democratico per essere più sicuro chiama al telefono il Cavaliere. Da Milano il padre nobile di Forza Italia offre la sponda: “La Belloni non esiste”. Ma aggiunge, “meglio Casini”. A essere più esplicito ci pensa Tajani che chiama Salvini e avverte: “Guarda che il Pd non ti segue sulla Belloni”. “Sei sicuro? Mi sembrava di sì”. “E comunque – è l’avviso del forzista – da questo momento tu non ci rappresenti”. Arriva anche la nota del ministro degli Esteri, Luigi Di Maio, contro la sua ex segretaria generale. Quella che veniva chiamata “operazione Ciampi”, dunque, si blocca.

La notte insegue i telefonini. A Palazzo Chigi scatta la parola d’ordine: Mattarella bis. Ma lo stallo in Assemblea resta. Il set di questo strano film diventa un fermo-immagine per almeno cinque ore. Sulle chat dei gruppi parlamentari tornano le due solite parole: bianca (scheda) e astensione.

Ieri mattina riprende la giostra. La settima votazione prende il via. Salvini parla con Giorgia Meloni. Colloquio non ininfluente. Alle 11,30, in una stanza al sesto piano del Palazzo dei gruppi parlamentari che un tempo era l’ufficio dell’attuale ministro Brunetta, si gira l’ennesima scena. Il vertice di maggioranza con Salvini, Renzi, Tajani, Ronzulli, Letta e Conte. L’inquadratura va sul vicepresidente di Forza Italia: “A questo punto la nostra soluzione è Casini”. Renzi annuisce: “Sempre detto”. Letta non si mette di traverso. Conte nemmeno pur ammettendo che farà fatica a convincere i suoi parlamentari. Prende forma l’ultma torsione di una trama sempre più senza razionalità. L’ultima voce è del segretario leghista: “Noi non possiamo votarlo”. Si torna di nuovo in sala macchine come una pellicola che si inceppa sempre allo stesso punto. L’esito del precedente colloquio tra Salvini e la leader di Fdi evidentemente produce un effetto. Salvini si alza in piedi, fa per uscire dalla stanza e poi si ferma: “Però potremmo stare su Marta Cartabia”. Sulla ministra della Giustizia. La reazione è unanime. Tutti sbuffano e il concetto è semplice: “Ma ora ci dici la Cartabia? Ma come la costruiamo? Dopo tutto quello che le hai detto?”. “E allora – allarga le braccia Salvini – non ci resta che Mattarella”.

A quel punto la cinepresa si rivolge solo verso il capo dello Stato. Draghi viene informato dell’esito dell’ultimo summit. Anche i partiti stanno sul bis. I parlamentari, in realtà, lo erano già almeno dal giorno prima. Ed è il presidente del Consiglio che a quel punto si assume l’onere di chiedere a Mattarella di rimanere. Poco prima dell’ora di pranzo sale sul Colle per il giuramento del nuovo giudice costituzionale, Filippo Patroni Griffi. Dopo la cerimonia si ferma a parlare con il capo dello Stato. Lo aggiorna sulla situazione e sulle intenzioni delle forze parlamentari. Gli chiede formalmente di rimanere. Torna a Palazzo Chigi e incontra il ministro leghista Giorgetti. Poi chiama tutti i leader del centrosinistra. E conferma di aver ricevuto il sì di Mattarella.

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Fino a quel momento il presidente della Repubblica aveva evitato accuratamente di interferire nelle trattative. La sua disponibilità è il frutto di una presa d’atto: ossia che il “vento del Parlamento” stava soffiando in quella direzione. Mattarella ha anche evitato di parlare con i leader dei partiti. La sua disponibilità – illustrata anche nel colloquio con Draghi – rappresenta uno stimolo affinché il Parlamento svolga la sua funzione fino in fondo. Non era insomma più accettabile che l’Assemblea continuasse a procedere a colpi di astensioni e schede bianche.

La fisiologia implica che una soluzione del genere sia tattica e occasionale, non sistematica. La situazione di emergenza complessiva, quindi, ha spinto Mattarella ad accettare la proposta che dopo Draghi gli è stata avanzata anche dai capigruppo della maggioranza. Ma il rapporto va inteso solo con il parlamento e non con le forze politiche. E naturalmente nessuno può pensare che il mandato ricevuto debba o possa avere una scadenza: come prevede la Costituzione dura sette anni. A quel punto le riprese del film si fermano. È l’ottavo ciak, o meglio l’ottava votazione. La trama impazzita si chiude, lascia la sala e si ritorna alla realtà. E, sperabilmente, alla normalità. Probabilmente la cena di venerdì prossimo con gli amici di sempre si farà ancora al Quirinale.

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