‘Ndrangheta a Roma, le intercettazioni: “Siamo pronti a fare la guerra”. Così i boss si sono presi la Capitale

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Per la prima volta la ‘ndrangheta ha creato una filiale criminale a Roma: un “locale”, come viene definito nel gergo, che è diretta emanazione della mafia calabrese. Non singoli boss che agiscono nella capitale per i loro interessi personali, ma l’avanguardia della colonizzazione condotta per conto dell’intera cupola ‘ndranghetista nella città del potere. 

L’operazione della procura capitolina in coordinamento con quella di Reggio Calabria – 38 arresti in carcere e 5 ai domiciliari nel Lazio e 29 in carcere e 6 ai domiciliari in Calabria- porta alla luce questa preoccupante avanzata dell’organizzazione calabrese, che ha sfruttato la crisi delle altre famiglie e la pandemia per inserirsi nella Città Eterna.

Al vertice del “locale” due capi: una diarchia senza precedenti, segno di un’altra evoluzione dei clan per adattarsi alla situazione del territorio. Uno è molto noto: Vincenzo Alvaro, diventato celebre come proprietario del Café de Paris in via Veneto. Il locale simbolo della Dolce Vita venne sequestrato nel 2009: i pubblici ministeri ritenevano che servisse per ripulire il denaro delle cosche.

Vincenzo Alvaro e lo staff del Café De Paris il giorno dell’assoluzione 

Due anni dopo Alvaro finisce in cella per intestazione fittizia con l’aggravante mafiosa, ma processi e appelli hanno fatto cadere le accuse ed è tornato in libertà. Secondo le contestazioni, ha ripreso subito la sua attività comprando ristoranti, bar, pescherie: un business cresciuto esponenzialmente durante il lockdown, quando molti gestori sono finiti sul lastrico e hanno scelto di vendere.

L’altro padrino del “locale” è Antonio Carzo, detto ‘Ntoni Scarpacotta, che si sarebbe mosso nell’ombra come plenipotenziario della ‘ndrangheta a Roma. Come Alvaro è cresciuto in provincia di Reggio Calabria: i loro padri sono stati processati insieme per associazione mafiosa. Viene considerato “l’uomo della tradizione”, il boss vecchio stile incaricato di dirigere i riti di affiliazione per fondare la struttura criminale romana e pronto “a scannare come un capretto” chi gli deve dei soldi. Ha scontato anni al carcere duro del 41bis, poi ha avuto dalla “Provincia”, l’organo collegiale al vertice della ‘ndrangheta, l’autorizzazione alla nuova missione e si è trasferito a Roma.

Traffico internazionale di droga: 19 arresti. Stupefacenti destinati anche alla ‘ndrangheta

10 Ottobre 2017

Le indagini condotte da Stefano Luciani, Francesco Minisci e Giovanni Musarò con gli investigatori della DIA evidenziano un dato cronologico inquietante. La colonia ‘ndranghetista sarebbe stata fondata nel 2015 e nell’ottobre 2017 consacrata in una “mangiata” – una cena in una casa fuori dal Raccordo Anulare, in quella periferia orientale diventata la terra promessa dei traffici – dove avrebbero distribuiti gli incarichi agli affiliati: “Abbiamo fatto alcuni movimenti, abbiamo fatto tante cose” rivelano intercettati.

Siamo proprio nel periodo in cui le retate della procura, guidata allora da Giuseppe Pignatone, spazzano via i “quattro re” che avevano il controllo della metropoli: Massimo Carminati, il camorrista Michele Senese, la famiglia Casamonica e il clan Fasciani. Questo vuoto nel potere criminale avrebbe convinto i grandi capi della ‘ndrangheta a fare il salto di qualità e insediarsi stabilmente nella capitale: una mossa che mai neppure Cosa Nostra aveva tentato. 

“Prima che arrivassi io tutta questa cosa bella non c’era” dice Carzo mentre descrive la sua creatura. Prima c’erano insomma tanti calabresi, ma tutti sparpagliati. Ora invece “siamo una carovana per fare una guerra”, constata Alvaro. Nella loro scaltrezza, però, i padrini calabresi si sarebbero resi conto che Roma non vuole capi: invece che puntare sul dominio dei quartieri, del racket e delle piazze di spaccio, hanno deciso di cominciare dagli affari. Dimostrando una mentalità imperiale, hanno creato una colonia capace di investire soldi e allo stesso tempo di radicare la sua autorevolezza nella vita malavitosa.

Café de Paris, le mani della ‘ndrangheta, quarant’anni alla cosca degli Alvaro

di PAOLO BOCCACCI

10 Aprile 2014

Per questi business Alvaro aveva le credenziali perfette: viene ritenuto abilissimo nel rilevare tramite prestanome esercizi commerciali e macinare profitti. Avrebbe avuto una schiera di colletti bianchi di fiducia, incluso un commercialista per mettere a posto i conti e il direttore di una filiale della Banca popolare di Milano che oltre a occuparsi dei bonifici lo avvisava degli accertamenti chiesti dalle forze dell’ordine. Ma il ruolo decisivo era quello dei familiari: assieme a lui sono stati emessi mandati contro la moglie Grazia Palamara e la figlia Palmira (accusate di intestazione fittizia con l’aggravante mafiosa, la prima ai domiciliari, l’altra in carcere), i due cognati Antonio e Giovanni Palamara e i nipoti Bruno Palamara e Teodoro Gabriele Barresi (accusati di associazione di stampo mafioso). Sarebbe persino riuscito, grazie alla collaborazione dei parenti, a svuotare le proprietà degli esercizi sequestrati: un modo di aggirare i provvedimenti dei magistrati. Secondo quanto ricostruito dagli inquirenti, grazie ai cognati, Alvaro avrebbe mantenuto dal 2009 al 2018 la gestione di fatto ad esempio del ‘Gran Caffè Cellini’ nel quartiere di Primavalle nonostante fosse stato sottoposto a sequestro e poi a confisca. I parenti erano solo dei dipendenti ma si comportavano da proprietari intimidendo gli amministratori giudiziali e il fiduciario. 

Alvaro è un personaggio che evita i lussi, abita in una casa a Centocelle e lavora da mattina a sera, senza mettersi in mostra. 

Ha imparato la lezione del Café de Paris ed evita i quartieri del centro e i posti glamour. La sua fama di esperto è tale che boss vengono dalla Calabria per chiedergli consigli su quali locali comprare. La sua esperienza lo aveva convinto che non bisognava temere le indagini per l’intestazione fittizia dei bar e trattorie: “tutte queste cose che si dicono che ti attaccano (arrestano ndr) sono tutte minchiate, io ho fatto un fallimento di un miliardo e mezzo mi hanno arrestato e condannato e ancora devo fare l’appello. Vedi tu, è andata in prescrizione” spiega nel maggio 2017 al cugino Carmelo Adami.

Vincenzo Alvaro e lo staff del Café De Paris il giorno dell’assoluzione 

E così sarà. La fase chiave scatta proprio nell’ottobre 2020, quando ad Alvaro viene cancellata l’aggravante mafiosa dal processo per intestazione fittizia dei locali e può rialzare la testa. Un momento perfetto per il suo business: il primo lockdown ha messo in crisi il commercio. E lui fa ancora di più incetta di bar, pizzerie, ristoranti, pescherie, parrucchieri, aziende per il ritiro di pelli e di olii esausti.

Per i pm, Alvaro è uno che conta, perché tutti sanno chi rappresenta. Nell’ordinanza si cita l’episodio di un imprenditore romano, Marco Pomponio. Vanta un credito con il clan Fasciani, ma non osa avvicinarsi a Ostia per riscuoterlo. Alvaro lo fa entrare in società con lui e si rivolge a Terenzio Fasciani – il fratello Carmine era in prigione – risolvendo il problema. 

Questa è la nuova realtà della mafia, che sta divorando il tessuto economico italiano in maniera paurosa e così moltiplica i fondi milionari accumulati con il traffico di droga. Una rete criminale dal volto pulito che sfrutta le occasioni migliori, dal lockdown ai cantieri del recovery. Ma che è scomparsa dal dibattito nazionale. Ora l’inchiesta di Roma lancia un allarme su come i clan riescano a sottrarsi alle indagini, grazie alla lentezza dei processi e ai limiti della legislazione sul riciclaggio. E’ così che la ‘ndrangheta si è insediata nella capitale, è così che sta colonizzando tutta Italia.

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