Lo scambio di prigionieri sul ponte: tre ucraini per un russo. “All’alba con una bandiera bianca in mano, quando l’ho passato ho pianto”

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ODESSA – “L’accordo prevedeva tre prigionieri ucraini per ogni prigioniero russo. Il luogo dell’incontro era il ponte distrutto sull’autostrada di Zaporizhzhya. Quando hanno chiamato i nostri nomi, ci hanno detto di camminare uno accanto all’altro. Eravamo in quattro. Dall’altra parte due russi sconosciuti ci venivano incontro. Nessuno accelerava, nessuno rallentava. Cinquecento metri di passeggiata verso la libertà. Uno di noi reggeva una bandiera bianca, io pensavo a cosa avrei detto ai miei figli. Era il 19 aprile, c’era silenzio. Tutto è avvenuto prima del sorgere del sole”.

L’uomo che parla con Repubblica si chiama Oleksandr Sytnyk, ha 36 anni e vive a Trostyanets, nella regione di Sumy. Ha assistito in prima persona a una delle prassi di guerra più segrete, delicate e difficili da raccontare: lo scambio tra nemici catturati. Sytnyk era tra i 75 ucraini che quella mattina di metà Primavera sono potuti tornare a casa. Dall’altra parte del ponte, 25 russi. Inermi e smarriti come lui. “Sono stato rapito davanti al mio garage il 12 marzo, senza un vero motivo. Non sono neanche un combattente, sono un carpentiere. Non avevo documenti con me, mi hanno strappato di mano il telefono e non mi hanno permesso di chiamare nessuno. Qualche giorno dopo mi sono ritrovato in un carcere a Stary Oskol, nella provincia russa di Belgorod, insieme alle guardie di frontiera dell’Isola dei Serpenti, i nostri eroi che hanno avuto il coraggio di mandare al diavolo la nave degli invasori”.

Quella che segue è la storia di un ucraino catturato per errore e per errore ritenuto un soldato. È stato in una cella di 30 metri quadrati con otto persone per più di un mese. L’hanno liberato solo dopo che i Comandi di Kiev e di Mosca lo hanno inserito in uno scambio di prigionieri. Come, nei piani di Zelensky, prima o poi dovrebbe avvenire con i difensori di Mariupol evacuati dall’Azovstal. Il Cremlino sostiene che sinora si sono arresi in 959, tra cui 80 feriti. Rimarcano la parola “resa”, che a Kiev nessuno pronuncia. Li hanno trasferiti nella Repubblica separatista di Donetsk, il cui leader Denis Pushilin ora dice che sarà un tribunale a deciderne la sorte. In realtà, dipende da Putin.

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“Il 12 marzo mi hanno legato le mani dietro la schiena con del nastro adesivo e mi hanno messo una busta nera in testa. Nel rastrellamento hanno preso anche il padre di mia moglie Tatiana e altre 28 persone. Ci hanno interrogato, volevano sapere le posizioni delle nostre truppe. Sentivo i calci sulle gambe e sulla schiena, la canna del fucile puntata in testa e in bocca. Non sapevo cosa dire per fermarli, io non faccio la guerra, riparo armadi e comodini di legno! Dopo ore ci hanno trascinato su un camion, sempre con la busta nera in testa, e siamo andati in un accampamento a Shebekino, vicino Belgorod. Sono stato nelle tende fino al 15 marzo. C’erano 200 prigionieri ucraini, tra cui 82 guardie dell’Isola dei Serpenti. Venti persone per ogni tenda. Hanno preso i telefoni e, a me, il portafoglio con mille grivne (poco più di 35 euro, ndr). Non ci hanno trattato male. Mangiavamo tre volte al giorno, ci davano tè, marmellata, zuppa, porridge, mele. Era vietato parlare tra noi”. Oleksandr Sytnyk ricorda anche i momenti più surreali della detenzione nelle tende. “Per fare una domanda ai nostri carcerieri, che erano della Repubblica separatista di Lugansk, dovevamo prima chiedere il permesso per fare una domanda. Scappare era impensabile”.

Dopo quattro giorni in silenzio, Sytnyk è stato condotto nel carcere giudiziario di Stary Oskol. “C’erano cani che abbaiavano e le forze speciale. “Benvenuti nel nostro villaggio vacanze”, dicevano, ridendo. Abbiamo indossato una tuta nera con una banda grigia. Sono stato interrogato di nuovo e credo sia stato a quel punto che hanno capito di aver fatto un errore”. Il carpentiere di Trostyanets è rimasto nella cella 32 giorni. Sua moglie Tatiana non aveva notizie di lui. La mattina del 18 aprile qualcosa si è mosso. “Alle 8 la guardia mi ha ordinato di prendere la mia roba e di seguirlo. “Scambio di prigionieri”, mi hanno spiegato gli altri carcerati. Hanno caricato me e una delle guardie dell’Isola dei Serpenti su un aereo. Avevamo un cappuccio in testa e le mani legate con le fascette di plastica, dovevamo stare piegati in avanti, con la testa sopra le ginocchia. Il volo ha fatto tre scali, a Kursk, Vorenezh e Taganrog: a ogni atterraggio salivano ucraini catturati. Ultima tappa: Sebastoboli”.

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In Crimea è rimasto fino al 19 aprile, la notte dello scambio. “Alle 4 ci hanno fatto salire su dei camion diretti al ponte distrutto vicino Zaporizhzhya. Eravamo 75. Nel luogo stabilito siamo scesi e ci hanno tolto le bende dagli occhi. Ricordo delle case, un campo di grano e il fiume. Era una zona franca a ridosso della linea del fonte. Niente bombardamenti, nessuno col fucile spianato. I soldati ucraini in contatto radio con i soldati russi chiamavano i nostri nomi. Quattro alla volta camminavamo verso l’Ucraina libera. I primi ad attraversare il ponte crollato erano i prigionieri russi, dopo trenta secondi potevamo passare noi. Era una situazione incredibilmente calma. La distanza tra noi e loro era di 500 metri, ci ho messo 10 minuti per percorrerla. Quando ho superato il ponte, mi sono commosso”.

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