Mario Draghi andrà oggi in Senato con due discorsi. Il primo, quello per provare a ottenere la fiducia e ripartire, è certo. Il secondo, quello per confermare le dimissioni, è opzionale ma pronto: lo userà nel suo spazio di replica se il dibattito in aula dovesse confermare che non ci sono le condizioni per andare avanti. Sbaglia, insomma, chi pensa che aver accettato di parlamentarizzare la crisi porti Draghi a una conclusione obbligata, cioè a riprendere da dove aveva interrotto, con o senza M5S. Questa è sicuramente l’intenzione, il risultato dipenderà dai partiti di maggioranza.
Il presidente del Consiglio si è confrontato ieri con Sergio Mattarella, creatore di questo percorso di possibile uscita dalla crisi, ne ha ascoltato i consigli, ha concordato con lui sul fatto che per il governo di unità nazionale la fiducia non può essere solo un fatto matematico. Le condizioni che hanno portato alla rottura del “patto di fiducia” sono di natura politica e non numerica. Sui numeri, del resto, non c’è mai stata agitazione: c’erano già la settimana scorsa, quando si è presentato dimissionario al Quirinale, e ci saranno anche oggi in Senato e domani alla Camera se si arriverà al voto di fiducia su una risoluzione. Sottolineato: se. Non è scontato il voto dell’aula. Draghi non vuole mettersi nella condizione di ricevere una fiducia intessuta di dubbi e proclami di guerra che non garantirebbe di governare davvero il Paese, né intende rischiare di doversi dimettere di nuovo dopo aver ottenuto il via libera dal Parlamento. Sarebbe una sgrammaticatura e servirebbe solo a dare argomenti alla strampalata tesi che lo descrive autosfiduciato. Si aspetta una risoluzione dritta: “Sentito il presidente del Conisglio, il Senato approva”. Altrimenti è pronto all’occorrenza il secondo discorso, per chiuderla lì, senza altre inutili contorsioni.
Partire dal Senato, ovviamente, non aiuta. Lì c’è la truppa parlamentare più fedele a Giuseppe Conte. Lì, soprattutto, c’è Matteo Salvini, che nelle ultime ore è sembrato impegnato a contendere al leader M5S il primato di irrequietezza. Sarebbe irrispettoso dire che, dal punto di vista di Palazzo Chigi, l’intervento della capogruppo M5S Maria Domenica Castellone sarà secondario rispetto a quello del leader della Lega. Irrispettoso ma non lontano dal vero. Non per ragioni di status o di preferenze, il punto è che questa parlamentarizzazione della crisi nasce mettendo in conto la possibile uscita del M5S, almeno di quello ufficiale. Il tentativo di imbarcare di nuovo Conte sarà fatto con convinzione, non c’è volontà di assecondare i veti del centrodestra o dare per scontato l’addio grillino. Ma alla domanda chiave, se Draghi sia disponibile a ripartire senza Conte, nonostante prima del crac in Senato sul decreto Aiuti abbia detto di non vedere un governo senza 5S, la risposta appare decisamente spostata sul sì. Si può fare. Anzi, meglio, nel caso si deve fare, perché il prezzo di un Paese acefalo e di una campagna elettorale agostana per votare a settembre è troppo salato e su questo la volontà del Quirinale è chiarissima. Coincide, peraltro, con la linea di molti parlamentari 5S, quasi tutti deputati però. Dopo Luigi Di Maio, un altro pezzo di Movimento è pronto a scindersi se Conte non voterà la fiducia. Non basta certo a dire che il M5S è nel governo, come si era impegnato Draghi, d’altra parte questa è una crisi nella quale più d’uno rischia di doversi rimangiare qualche parola e il presidente del Consiglio non fa eccezione. Fondamentale è che lo faccia anche Salvini, perché è difficile che il governo vada avanti se il leader della Lega dovesse rilanciare in aula il repertorio che sta usando nei comizi e nelle dichiarazioni: veti, richieste di rimpasto, licenziamento di Lamorgese e Speranza, scostamenti di bilancio da decine di miliardi. Draghi lo ha fatto capire alla delegazione del centrodestra a Palazzo Chigi, presente Salvini: o si costruisce o si chiude. Lui non parte per chiudere, ed è già una notizia.
Nel discorso di stamattina rivendicherà gli obiettivi raggiunti dall’esecutivo – la campagna vaccinale, le riforme legate al Pnrr, i sostegni garantiti all’economia. Poi dirà cosa va ancora fatto, a cominciare dal provvedimento sulla concorrenza, altro tassello per ottenere una rata dei soldi europei e fresco ostaggio degli scontri della maggioranza. Metterà l’accento sul programma sociale, il nuovo decreto in arrivo, la necessità di mettere in campo misure strutturali per contrastare il carovita. Ricorderà il valore degli impegni assunti a livello internazionale sulla guerra in Ucraina, proprio ieri è arrivata anche la telefonata con il presidente Volodymyr Zelensky, ultimo dei contatti con governi e cancellerie di tutto il mondo che lo hanno di fatto invitato a proseguire. Non ci saranno però concessioni ad personam, l’adozione di proposte di bandiera di questo o quel partito. Draghi non vuole che passi il concetto che il governo si può terremotare con le richieste di una parte politica a dispetto delle altre. Lasciar correre questa condotta significa accettare che, rientrata questa crisi, se ne affacci presto un’altra simile. Scenario da discorso numero due.