Matteo Salvini, Capitan Fracassa e aspirante Churchill. La doppia personalità del leader della Lega

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Più imprevedibile di un manicomio, la politica ha messo in scena l’inedito, goffo duello finale tra Matteo Salvini e Pierferdinando Casini, il gabbamondo sempre gabbato contro il più astuto di tutti, gatto e al tempo stesso volpe dell’eternità italiana. Incredibilmente, hanno perso entrambi, Salvini e Casini, ma solo perché Berlusconi non ha perdonato Pierfurby, come per sempre lo ha battezzato Dagospia catturandone l’anima, e mai avrebbe permesso proprio a lui – “il traditore” – di salvare Mario Draghi e il suo governo. Salvini non se l’aspettava, sognava di avere imprigionato Draghi in un’altra tela, una supertela da Uomo Ragno, e di essere diventato, proprio lui così ruvido e maldestro, il nuovo finissimo tessitore di Palazzo, nascosto come il papa absconditus del diritto ecclesiastico. E ora è furioso perché, in una giornata-babele ha invece aiutato Draghi a dimostrare che, anche in Italia, ci si può dimettere non solo quando ci si sente “al di sotto”, ma anche quando ci si sente “al di sopra”, come fu, per esempio, il caso di De Gaulle che andò via senza dare spiegazioni e perciò permise a Raymond Aron di scrivere: “È un piacere ascoltare il silenzio di quest’uomo”.Matteo Salvini lo aveva pure detto: non temo Giorgia Meloni, temo Giuseppe Conte. Non che ancora lo temesse come l’avversario che solo tre anni fa – sembra un secolo – lo aveva castigato e umiliato. Salvini temeva Conte come destino finale. Non solo aveva paura che la Lega si sgretolasse come i 5stelle, ma che “l’effetto Draghi” continuasse a immiserire la sua leadership, sino a renderlo appunto insignificante: un altro Conte. Ovviamente il capitano ha ancora il terrore di non essere più capace di sedurre, riscaldare e caricare i ragazzi padani che a settembre lo aspettano a Pontida, “i rivoluzionari da scuola Radioelettra” li chiama Giorgetti, che ieri sera gli ha detto: “La tua partita comincia adesso, dopo i novanta minuti in campo”.

Ieri Salvini implorava Berlusconi – non fatemi “marciare” con Giorgia Meloni né “marcire” con Giancarlo Giorgetti – quando si è messa vorticosamente a girare la sua doppia identità. La scenografia era la Villa Grande che fu di Zeffirelli, il teatro del colpo di scena, del grande spettacolo, dell’eccesso che prende la mano. Dunque si sentiva smarrito, Matteo Salvini, come l’omino volante di Chagall, ma nella versione dell’omaccio volante, deturpato dal rancore, il meno zeffirelliano di tutti gli uomini.

E perciò alle 13, con Berlusconi, Salvini posava a statista: “Faremo il bene dell’Italia”. Alle 14 telefonava, addirittura, a Giorgia Meloni: “Preparati alla campagna elettorale, torneremo insieme”. E poi alle 15, al telefono con Mattarella, di nuovo: “Presidente, faremo il bene dell’Italia”. E ancora alle 20, quando tutto ormai sarà finito, dirà: “Faremo il bene dell’Italia”.Salvini si era pure preso le sberle di Draghi ma, obbedendo a quell’altro se stesso, paziente e strategico, che non riuscirà mai a diventare, aveva indossato la tunica penitenziale, si era adornato di umiltà e aveva scelto di non parlare al mattino in Senato. Avrebbe voluto farlo nel pomeriggio per battezzare il Partito unico, “il centrodestra di governo per Salvini presidente”. Non che avesse rinunciato a fare il regista: aveva ceduto il suo posto al capogruppo Romeo e si era messo a trattare, ma questa volta senza esporsi per non ripetere il disastro del gennaio scorso quando, alle grandi manovre per il Quirinale, bruciava “nomi” a ripetizione, persino quelli di Sabino Cassese e di Elisabetta Belloni.

E va bene che siamo nel Paese delle mille identità, ma più che il solito, abusato Machiavelli ci vorrebbe adesso un comico per raccontare quel capitan Salvini che, in combattimento contro se stesso, per tutta la durata del governo Draghi si atteggiava a Churchill: ” Sono pragmatico, sono un uomo concreto, lascio agli altri le etichette: fascista, comunista”. Studiava i codici della moderazione da quando a Bologna lo avevano sconfitto – ricordate? – le sardine. Mascherato da Cherubino di Mozart, “non so più cosa son, cosa faccio”, si tratteneva in maniera sgangherata davanti a Draghi che fingeva di credere al suo travestimento pur sapendo che, prima o poi, Salvini sarebbe tornato se stesso. E se all’inizio ci volevano i nomi “Elsa Fornero” o “Carola Rackete” per farlo tornare, magari per un momento, l’incredibile Hulk, quello che più insultava e più seduceva una certa Italia in decomposizione: “sbruffoncella, fuorilegge, complice dei trafficanti, assassina, delinquente, criminale”. E invece, dopo l’aggressione dell’Ucraina, erano i raggi gamma di Putin a risvegliare il capitan Fracassa dei “pieni poteri”, diventato pacifista e filorusso.

Anche “la ciambella” con cui aveva sognato ieri di salvare e imprigionare Mario Draghi in una camicia di forza, la mozione presentata dal suo fido Calderoli, deve essergli sembrata una sapienza di filosofia politica anglosassone alla Isaiah Berlin e non la solita furbizia politica meridiana, la destrezza di mano del terrone padano: “Il Senato accorda il sostegno all’azione di un governo profondamente rinnovato sia per le scelte politiche sia nella composizione”. Ma poi, all’improvviso, come Clint Eastwood, è arrivato Pierfurby, con il suo rigo appena: “Il Senato, udite le comunicazioni del presidente del Consiglio dei ministri, le approva”: al cuore, Ramon, al cuore

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