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L’ufficiale del Reggimento Azov guida un fuoristrada sulla via sterrata che porta al fronte, tiene gli occhi sui campi e sugli alberi che scorrono veloci e risponde volentieri alle domande. Alto, stanco, naso grosso, barba bianca. Tutti gli uomini del Reggimento hanno un nome in codice che usano al posto del nome vero, lui è “il Filosofo”. Lo chiamano così per la faccia da pensatore? “La barba mi è sbiancata di colpo nel 2015 perché sono rimasto bloccato sotto il fuoco d’artiglieria dei russi per tre ore. Quando hanno smesso di bombardarci era così, però pian piano sta tornando nera”, dice con un filo di speranza. “Comunque no, è perché ho studiato Medicina e mi piace fare discorsi lunghi”.

Il Filosofo comanda una squadra di combattenti di Azov che oggi sparerà con due cannoni: sette uomini per cannone più altri che si occuperanno di formare un perimetro di sicurezza attorno per non farsi cogliere di sorpresa. I suoi sono già sul posto, aspettano lui per cominciare. Il fuoristrada è un civilissimo Volkswagen blu metallizzato e viaggia pieno, uno degli uomini ballonzola dentro al bagagliaio con il fucile in mano.

Il comandante della squadra di artiglieri di Azov; il suo nome in codice è “il Filosofo” (foto di D. Raineri) 

L’operazione di oggi è del tipo che gli americani chiamano scoop and shoot. Porti i cannoni verso la prima linea, spari contro i russi e poi sposti via i cannoni prima che i russi capiscano da dove partono i colpi e sparino a te. Ogni giorno in Ucraina se ne fanno decine come questa. Con i lanciarazzi americani Himars: basta un minuto, il tempo di schiacciare due bottoni, di rimettere in moto e andare via. Con i cannoni invece è una faccenda più laboriosa: quando è il momento di muoversi, prima è necessario staccarli da terra, dove erano stati ancorati anche con l’aiuto di sacchetti di sabbia perché a ogni colpo tendono ad andare per conto loro, poi bisogna agganciarli ai camion e portarli via a rimorchio. Quando i soldati russi ti cercano è meglio allontanarsi in silenzio a bordo della cabina blindata di un Himars oppure su una carovana sferragliante che non può andare veloce sopra le strade sterrate? E c’è da considerare che i cannoni sono anche dieci volte più lenti a sparare.

Una squadra di artiglieri di Azov spara contro i russi sul fronte meridionale, a nord ovest della città di Mariupol (foto di D. Raineri) 

La postazione di partenza scelta dai combattenti di Azov per questo attacco è in mezzo alle stoppie e ai filari di alberi in un punto non specificato sul fronte sud, a nord-ovest di Mariupol. In questa regione le Forze armate di Kiev si ammassano in vista della controffensiva per liberare le città dell’Ucraina meridionale – se ne parla molto fin dall’inizio dell’estate, potrebbe essere fra due giorni oppure fra due mesi. Se questa grande offensiva funzionerà – ed è un grosso se – gli ucraini cacceranno i russi, arriveranno fino alla costa e metteranno di nuovo i piedi sul confine della penisola di Crimea occupata otto anni fa. La Russia sta pensando di annettere quei territori e di farli diventare una nuova provincia russa (c’è già il nome: Novorossiya, “nuova Russia”), così potrebbe dire che gli ucraini stanno aggredendo la patria e potrebbe invocare la legittima difesa e una reazione durissima – come se finora avesse scherzato.

Linea zero

La prima linea nella guerra ucraina si chiama Linea Zero, come la distanza dagli invasori. Da lì si calcola a ritroso. Linea cinque vuol dire che i russi sono a cinque chilometri e così via. Il Filosofo infila il muso del fuoristrada il più possibile sotto le fronde degli alberi per paura dei droni e spegne il motore. Ha anche la targa personalizzata in cirillico: “Azov – Filosofo”. Gli altri sono in piedi nell’ombra. La posizione è a dodici chilometri dai soldati russi, quindi dentro la zona di tiro del loro fuoco di risposta – che arriva fino a Linea trenta.

Le città del sud ucraino occupate dall’esercito di Putin sono Melitopol, Kherson, Berdyansk, Enerhodar e Mariupol. Soprattutto Mariupol, sospirano i soldati del Filosofo sotto gli alberi. Ha un significato speciale. È il luogo dove il Reggimento Azov ha preso il suo nome nel 2014 ed è anche il luogo dove quest’anno si è quasi estinto nella sua formazione originale: ha resistito con perdite enormi dentro all’acciaieria Azovstal all’onda d’urto dei russi e dei separatisti per 80 giorni e infine si è arreso. Tutti i superstiti sono stati fatti prigionieri e in questo momento aspettano chiusi in campi di detenzione nell’autoproclamata Repubblica di Donetsk. Martedì 2 agosto, la Corte Suprema della Russia deciderà se i combattenti di Azov sono dal punto di vista legale “terroristi” oppure no: se lo sono, non hanno i diritti e le protezioni garantite ai prigionieri di guerra e possono essere condannati a morte.

Quanti di questa squadra di artiglieri erano già combattenti di Azov prima dell’invasione russa e quanti si sono arruolati dopo, soprattutto dopo avere visto cosa è successo durante l’assedio di Mariupol? “Qui sono quasi tutti reclute, pochi appartengono alla vecchia guardia. Diciamo ottanta per cento reclute e venti per cento veterani”, dice il Filosofo.

Azovstal, l’addio del fotografo-soldato: rilascia le sue foto in rete come testamento

“A proposito, mentre sono prigioniero vi lascio le mie foto in alta qualità, mandatele a tutti i premi giornalistici e concorsi fotografici. Sarà molto bello se vinco qualcosa, dopo essere uscito”. L’ultimo tweet di Dmytro Kozatsky, conosciuto da tutti come Orest, non poteva che essere accompagnato dalle ultime immagini dall’acciaieria Azovstal che per quasi tre mesi gli ha assicurato protezione contro gli assalti russi, insieme a centinaia di commilitoni.

Più di venti foto caricate in una cartella su Google Drive, attraverso un link pubblico e disponibile a tutti, diventate il testamento del fotografo-soldato che non ha mai smesso di raccontare attraverso il suo obiettivo le condizioni di vita all’interno dell’acciaieria. “Bene, questo è tutto. Grazie dal rifugio di Azovstal, il luogo della mia morte e della mia vita”, ha scritto nel suo ultimo post su Twitter il giovane combattente. Immagini di volti sfigurati, feriti, amputati e cure in condizioni estreme. Una galleria dei dannati destinata a rimanere scolpita nella memoria della guerra, che gli è valso l’appellativo di “occhio di Azovstal”. 

Il comandante Zhorin

“Il Reggimento Azov era uno solo, era di stanza a Mariupol quando è cominciata la guerra ed è rimasto lì a combattere e tutti sappiamo come è andata – spiega a Repubblica l’ex comandante del Reggimento, Maxim Zhorin, intervistato in una base a Kiev – ma quando i russi hanno invaso l’Ucraina tutti i veterani che per una ragione o per l’altra erano rimasti fuori dall’assedio di Mariupol hanno creato nuovi gruppi territoriali di combattenti di Azov. In tutto il paese e in tutte le grandi città, da Kiev a Dnipro a Zaporižžja. E tutti questi gruppi, proprio come il Reggimento Azov, sono stati integrati nell’esercito regolare. I russi volevano eliminare il Reggimento, invece l’hanno moltiplicato. A Kharkiv c’è l’unità Kraken (come la leggendaria piovra gigante capace di affondare navi) che nella catena di comando risponde all’intelligence militare di quella regione e ne fa parte. Noi di Kiev siamo stati integrati nel Comando delle forze speciali. E così è successo a tutte le nostre unità. Fanno parte delle Forze armate e però allo stesso tempo sentono la fratellanza di fare parte di Azov. Ci sentiamo spesso tra noi e abbiamo un nostro sistema di solidarietà per non far mancare nulla ai feriti e alle famiglie dei caduti, ma per il resto prendiamo ordini in modo verticale dalle Forze armate come tutti gli altri”. In modo verticale vuol dire che il Reggimento Azov, da quando è un reparto inquadrato tra le forze del ministero dell’Interno quindi dal 2015, obbedisce a una catena di comando e non può fare quello che gli pare. 

Una foto di repertorio di Maksim Zhorin, terzo comandante del Reggimento Azov (ansa)

Chi si vuole arruolare fra i combattenti di Azov si deve arruolare nell’esercito ucraino? “Sì”, dice Zhorin, “deve firmare il contratto che firmano tutti i militari e che impone il servizio attivo fino alla fine della guerra, come stabilito dalla legge marziale”. Il Reggimento ha però un privilegio rispetto agli altri reparti: può reclutare in via diretta i volontari, senza che passino per l’ufficio arruolamento dell’esercito. Di solito è il contrario: è l’esercito che distribuisce le reclute secondo le necessità. Ma chi vuole fare parte di Azov vuole in modo specifico far parte di Azov e non di altri reparti delle Forze armate. Così, mentre il Reggimento originale si consumava giorno dopo giorno nell’assedio dell’acciaieria, chi era rimasto fuori lavorava a ricostruire il gruppo – sotto forma di piccole unità militari che oggi sono sparse lungo tutto il fronte. “C’è una fratellanza interna. A volte succede che possiamo eseguire ordini insieme con altre unità di Azov, nella stessa operazione, e siamo molto felici”.

Pezzi da museo

Gli uomini di Azov nascosti sotto gli alberi controllano sugli schermi dei telefoni il video in streaming che arriva da un drone, una croce bianca che inquadra russi posizionati su pezzi gialli di pianura in direzione sud, e aspettano il momento giusto per sparare. Nell’erba e attaccata a una batteria c’è la parabola bianca di uno Starlink, uno dei congegni mandati da Elon Musk per offrire una connessione internet satellitare anche in mezzo al nulla. I due cannoni sono D-44 di fabbricazione sovietica e sono pezzi da museo. Non è un’iperbole: sono stati costruiti nel 1946, un anno dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale. Non erano nemmeno più in servizio all’esercito, li aveva un gruppo di appassionati del genere che si divertiva a rievocare le battaglie del passato con le uniformi dell’epoca. Poi è cominciata l’invasione russa e i combattenti di Azov hanno cominciato a usare i due pezzi sul serio.

Una squadra di artiglieri di Azov spara contro i russi sul fronte meridionale, a nord ovest della città di Mariupol (foto di D. Raineri) 

La loro gittata massima è di 15 chilometri ed è la metà della gittata dei cannoni M777 americani e degli FH-70 italiani che sono arrivati ad altre unità, spiega uno del Reggimento, che nella vita civile faceva l’esperto di reti informatiche. Nome di battaglia “Vaso”. “Anche il calibro è molto inferiore, 85 millimetri contro i 155 millimetri degli altri e se spari cinque-sei colpi di seguito la canna s’arroventa e diventa rossa”. Però hanno un vantaggio rispetto ai grossi calibri: i radar di terra dei russi che osservano i colpi dell’artiglieria ucraina “non vedono i colpi così piccoli e non capiscono bene da dove partono e quindi il fuoco di risposta russo non è preciso”. Questo pezzo di pianura ucraina è come una scacchiera fatta di campi: le batterie ucraine sparano a quelle russe e viceversa con la speranza di centrare la casella giusta, in attesa della controffensiva. Nel Donbass è lo stesso ma a parti rovesciate e sono i russi che sperano di avanzare. I droni occhiuti volano sopra i due territori per scoprire le caselle dei nemici sotto il sole di luglio. “Questa è una guerra di cannoni e di droni”, dice Vaso.

Il trucco quando i cannoni sparano vicino è tenere la bocca aperta e le orecchie tappate, per compensare la pressione. Tutti gli uomini di Azov hanno cuffie copri orecchie per proteggersi dal rumore e le cuffie sono collegate via radio. I russi sono a dodici chilometri. Il cannone spara. Il drone vede dove cade il colpo. Gli uomini correggono la mira grazie a due volani che spostano la canna. I serventi caricano il proiettile. Altro sparo. E avanti così, il più veloce possibile, perché più si sta fermi nello stesso posto più è probabile che gli altri comincino a rispondere contro la tua posizione. Harmata! dice l’ufficiale quando il cannone è caricato e puntato: “cannone!” E poi Vogon!, fuoco. Quando un cannone si surriscalda, comincia l’altro. Mojna?, chiede un uomo, “posso?”; aziona lui il meccanismo di tiro che fa sparare il cannone e poi si batte il petto. “Uhhh!”. È una questione personale. I combattenti di Azov vogliono fare del male ai soldati russi.

Un problema di reputazione

Domanda per il comandante: se voi di Azov siete i successori degli eroi dell’assedio di Mariupol, se incarnate lo spirito di resistenza ucraino che finora ha permesso al paese di far fronte all’invasione russa – perché diciamolo, se non c’è voglia di combattere a poco servono i missili Javelin che arrivano dagli Stati Uniti – e se fate parte del Comando delle forze speciali per la vostra determinazione in combattimento contro i russi, perché non avete le armi che hanno gli altri? Da due mesi sul campo di battaglia arriva materiale bellico che infligge danni spaventosi all’esercito russo, grazie agli alleati internazionali: gli obici M777da 155 millimetri americani, quelli Fh-70 italiani che sono ancora più veloci, gli obici semoventi francesi Caesar, e dal 23 giugno anche i lanciarazzi Himars – così precisi che possono centrare un ponte stradale controllato dai russi a 70 chilometri proprio sulla striscia di mezzeria. E qui state sparando con cannoni del 1946. Che succede? “A noi non danno le armi che arrivano agli altri – dice il Filosofo a Repubblica – per tutta una serie di ragioni che sono sullo stesso livello, senza che una sia più forte delle altre. La prima è la questione della nostra reputazione internazionale (dice proprio così, in ucraino è: reputazia), che evidentemente ci esclude dalla consegna di queste armi. La seconda è che qualcuno vede che combattiamo bene e che siamo molto forti e non vuole farci diventare ancora più forti. La terza è che certi generali ragionano ancora secondo schemi vecchi, obsoleti, come se fossimo ancora sovietici, mentre noi siamo unità più agili ma loro non lo capiscono. Oggi stiamo facendo con due cannoni un lavoro che se fosse per loro richiederebbe sai quanti cannoni? Diciotto”. Un soldato che ascolta interviene: “Se avessimo gli Himars avremmo già ripreso Mariupol”.

La cronologia del conflitto

In pratica il governo dell’Ucraina con discrezione continua la stessa politica che nel 2015 portò alla decisione di escludere i soldati di Azov dall’esercitazione “Fearless Guardian”, nella quale centinaia di istruttori americani arrivarono nel paese per addestrare militari ucraini. Avete mai ricevuto armi dagli alleati occidentali? Risponde il portavoce di Azov: “Sì, quelle della prima ondata, come i missili anticarro Javelin e Nlaw”. Direttamente oppure prima passano per il ministero della Difesa? “Il ministero si occupa di distribuire le armi. Sarebbe illegale se qualcuno rifornisse direttamente un reparto”. C’è da fare un’aggiunta. Non sarebbe vero sostenere che il governo ucraino snobba del tutto il Reggimento Azov – e questa è una cosa che confermano gli stessi combattenti e ufficiali del Reggimento. Il capo dell’intelligence militare, Kyrylo Budanov, 36 anni, uno dei generali più efficienti dell’Ucraina, in queste settimane guida i negoziati riservati con i russi per liberare i prigionieri della Azovstal e ne ha già riportato a casa qualcuno. Durante l’assedio dell’acciaieria aveva organizzato le missioni temerarie con gli elicotteri per rifornire i combattenti e portare via i feriti, che s’interruppero soltanto quando i russi cominciarono ad abbattere gli elicotteri.

Domanda per la squadra di artiglieri: vi capita mai di pensare di attaccare, se ne aveste la possibilità, in territorio russo? In fin dei conti loro bombardano qualsiasi punto in Ucraina, anche zone popolate da civili che sono molto lontane dai fronti: pensate di poter fare la stessa cosa? È una questione molto attuale in Ucraina perché in questo momento l’Amministrazione Biden non consegna all’esercito ucraino un tipo di razzo che raggiunge i 300 chilometri di distanza proprio per evitare che possa essere usato contro bersagli sul territorio russo e porti a una escalation. Gli ucraini compiono attacchi sporadici in territorio russo, ma per ora si tratta perlopiù di colpi di mano e raid contro obiettivi specifici, come ponti ferroviari e depositi di carburante, che poco hanno a che vedere con la minaccia permanente che i russi rappresentano per le città ucraine. A questa domanda le risposte dei combattenti di Azov sono tutte simili e ci sono due spiegazioni possibili: o ci credono davvero oppure hanno una disciplina molto forte con i media, impartita durante l’addestramento. “Noi ci occupiamo soltanto della difesa dell’Ucraina e degli ucraini, non ci interessa attaccare fuori dai nostri confini, con il rischio magari di colpire civili russi. La nostra lotta è qui”. Quindi niente occhio per occhio, dente per dente? “No, per noi non va bene”.

Un’unità di nazisti?

Le parole dell’ufficiale sul fatto che non c’è il desiderio di vedere le unità di Azov diventare più forti non sono così sorprendenti. Nessuno si aspettava di vedere il Reggimento resistere così a lungo durante l’assedio di Mariupol. I sopravvissuti oggi sono trattati da eroi e il nome Azov ha acquistato un capitale politico enorme, che prima o poi potrebbe decidere di spendere, anche se l’ex comandante Zhorin assicura a Repubblica che “non ci sono piani per il dopoguerra, siamo troppo occupati con la guerra, sarebbe inutile del resto pensarci troppo, prima c’è da vedere chi ci arriva vivo al dopoguerra”. Dopo ogni grande guerra sono i veterani però ad avere un peso enorme nelle decisioni. La prima volta che alcuni leader del Reggimento hanno provato a fondare un partito politico, anni fa, Zhorin incluso, e a presentarsi alle elezioni è andata molto male: sono rimasti al 2% – l’attuale presidente, Volodymyr Zelensky, è stato eletto con il 70%. Diciamo che dall’alto ci potrebbe essere una certa attenzione perché le cose, quando la guerra finirà, non brillino troppo a favore del Reggimento Azov. I cannoni hanno finito di sparare. I russi rispondono al fuoco con tre colpi che però cadono lontano, non hanno capito la posizione dei due cannoni ucraini. Gli uomini si stringono nelle spalle, il gruppo di fuoco smonta in fretta. È ora di risalire in macchina.

Il Reggimento Azov è un gruppo nazista? Per spiegare come stanno le cose si potrebbe fare un esempio preso dalla politica italiana: Fratelli d’Italia è un partito fascista? Se oggi qualcuno andasse a dire a Giorgia Meloni oppure a Guido Crosetto, che del partito è fondatore, che sono due nazifascisti si prenderebbe una querela. Ma se andasse a casa di qualche militante meno conosciuto potrebbe trovare busti del Duce e molta nostalgia. Vuol dire che il partito è fascista? No (sennò per legge non potrebbe esistere). Vuol dire che ci sono iscritti al partito, simpatizzanti ed elettori fascisti? È molto probabile.

Quando è nato nel 2014, il Battaglione Azov – non era ancora un reggimento – aveva leader e militanti di estrema destra, ma c’era bisogno di combattenti che avessero una particolare determinazione contro la Russia. Basti pensare che quell’anno metà dei servizi segreti ucraini decise di passare dalla parte di Mosca, c’era un problema enorme di lealtà tra le forze di Kiev. Quando l’anno seguente divenne un reparto agli ordini del Ministero dell’Interno il battaglione perse la sua autonomia e alcuni elementi estremisti se ne andarono. Nel 2017 ci fu una purga interna e altri elementi considerati estremisti furono cacciati. A marzo di quest’anno il giornalista russo Alexander Nevzorov, che tra le altre cose è stato il primo a essere incriminato in Russia per avere sfidato la legge sulle fake news, ha chiesto direttamente ai vertici del Reggimento: siete un gruppo di nazisti come dice la propaganda russa? Quelli hanno risposto con una lettera aperta. Eccone il passaggio centrale: “Disprezziamo il nazismo e lo stalinismo. Perché il nostro è il Paese che ha sofferto di più a causa di questi regimi totalitari e di queste false ideologie. La Russia bombarda Babi Yar, dove sono sepolte le vittime del nazismo del Ventesimo secolo. I putinisti lanciano tonnellate di proiettili su ospedali, scuole, asili, chiese. I soldati di Putin sparano agli anziani, uccidono bambini e donne incinte, come facevano una volta i nazisti. Il nazismo è il bisogno insaziabile di uccidere le persone che osano diventare libere. È la convinzione di avere il diritto di governare altri popoli, violentando e depredando altri stati. Non ti ricorda niente?”.

Da sinistra: patch del gruppo Kraken, una sub-unità di Azov che combatte nella regione di Kharkiv a nord; patch di Azov con i tre pugnali che formano il tridente (simbolo nazionale ucraino) (foto di D. Raineri) 

La questione nazismo rende i combattenti di Azov ipersensibili. Per evitare polemiche la squadra di artiglieri accetta di rispondere soltanto alle domande sulla guerra, “ma niente domande politiche”. È formata da una trentina di uomini, più una donna che fa da paramedico. Sulle maniche delle uniformi oppure sul petto hanno le patch in velcro con il nuovo simbolo del Reggimento, che non è più il Sonnenrad (il sole a dodici raggi della mitologia nordica adottato come simbolo dall’estrema destra) con le lettere I e N di “Identità della Nazione” incrociate, bensì è un tridente, il simbolo dell’Ucraina, formato da tre pugnali. Poi ci sono altre patch informali, attaccate ai giubbotti antiproiettile per scelta personale. La più comune è quella con il teschio del Punitore, il personaggio Marvel. Usata per prima dai Navy Seals nel 2005 durante la guerra in Iraq, è stata copiata ovunque, dai soldati iracheni fino ai mercenari russi del Gruppo Wagner. Uno ha una patch con un tizio in cravatta che alza il dito medio, simbolo per “Le teste di cazzo di Leopoli” (orgoglio campanilista). Alcuni artiglieri hanno una patch con un cannone stilizzato, simbolo dell’artiglieria, e sullo sfondo c’è il Sonnenrad come nel vecchio simbolo.

Da sinistra: una squadra di artiglieri di Azov spara contro i russi sul fronte meridionale, a nord ovest della città di Mariupol. La patch con il dito medio è un riferimento scherzoso e volgare alla città di Leopoli (foto di D. Raineri) 

A Zaporižžja incontro due combattenti di Azov – nomi in codice: “Loki”, come il dio nordico, e “il Buono” – che non appartengono alla squadra e quindi rispondono alle domande sul nazismo: “Siamo nazionalisti, non siamo nazisti. I nazisti volevano morire per Hitler, noi vogliamo morire per il nostro paese. Combattiamo per l’Ucraina, come gli italiani farebbero per l’Italia. Il nazismo c’è nella testa di Putin e di Lavrov (il ministro degli Esteri russo)”.

Reclute

Per arrivare alla base segreta dove si addestrano le reclute di Azov c’è bisogno di due passaggi, prima arrivano le coordinate di una posizione per incontrare una persona che a sua volta fornisce una seconda posizione. È dentro un bosco, per sfruttare la copertura degli alberi. Viene da chiedersi cosa succederà questo inverno quando le foreste ucraine senza foglie saranno molto più trasparenti agli occhi degli osservatori dall’alto. Per ora non c’è questo problema. Della base si può vedere soltanto un angolo per motivi di sicurezza; si va verso una lavagna davanti a due tavolacci di legno, sulla lavagna ci sono istruzioni su come si spara con il fucile e una preghiera scritta minuta in un angolo. Il corso d’addestramento dura tre settimane. Alla fine si va in guerra, che quasi si riesce a sentire da questo luogo.

Da sinistra: un soldato e il paramedico della squadra di Azov, Maria (foto di D. Raineri) 

Il gruppo Azov sfrutta la sua licenza speciale, rispetto agli reparti, di poter reclutare direttamente i suoi soldati. “Sedici giorni fa avevamo 47 reclute, adesso sono rimaste in 21. Le persone che hanno abbandonato hanno realizzato di non essere pronte per i compiti che saranno loro assegnati, oppure che non sopportano questo livello di fatica fisica, o che non hanno lo spirito giusto o che non sono pronte a imparare. Per scremare cerchiamo di spingere tutti oltre le loro possibilità. Se uno viene al campo ed è in grado di fare 10 flessioni, lo forziamo a superare i suoi limiti e ad arrivare a 15. E vediamo se riesce a superarsi oppure no. Se arriva uno in buona forma fisica e riesce a fare 100 flessioni, gliene chiediamo 150”, dice l’istruttore, 26 anni, nome in codice “Dab” (quercia). Capelli corti, braccia grosse, voce giovane, veterano del Donbass, sembra uscito da un casting per il ruolo di istruttore in un campo militare ucraino. “Alla fine della selezione sei dentro Azov, che per noi è come una famiglia. Non conta se sei dentro da due giorni oppure da cinque anni”. Qual è l’insegnamento più utile impartito alle reclute che alla fine del corso sono gettate in guerra? “Nei primi giorni dell’invasione era la capacità di fare manovre in fretta e di agire di sorpresa. Adesso che c’è stata un’escalation e la guerra si trascina ed è diventato importante sapersi trincerare, fare fortificazioni e proteggersi”. Pensi che combatterete fino a raggiungere i confini del 1991, quindi vi riprenderete la Crimea e il Donbass? “Sarà molto difficile, la guerra potrebbe andare avanti davvero a lungo. Per questo penso che dobbiamo migliorare su ogni piano: mentale, fisico, tattico. Non dipende da me, dipende dagli ordini che riceveremo. E comunque, anche se spingessimo indietro il nemico fino ai confini del 1991, la minaccia ci sarà sempre, il rischio che torni a colpire sarà molto alto. Quindi anche se qualcuno di noi tornerà alla vita civile dobbiamo tenerci pronti, perché il nemico può tornare in ogni minuto, in ogni secondo”. 

Accanto all’istruttore c’è una recluta, “Dobryaga” (che si può tradurre così dall’ucraino: il bravo ragazzo). Piccolo, occhi chiari, faccia mite. “Prima di venire qui lavoravo in Italia. Raccoglievo asparagi nel Lazio. Prima ho fatto due mesi di lavoro, poi tre mesi. Quando è scoppiata la guerra sono tornato qui”. È difficile trovare un ufficio reclutamento del gruppo Azov? “No, ci sono i numeri di telefono, la gente se li passa, è una cosa normale”. Perché hai scelto proprio Azov per arruolarti? “Perché ho visto cosa hanno fatto durante l’assedio alla acciaieria di Mariupol, quanto hanno resistito. Qui vogliamo essere considerati i loro eredi”.

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