ROMA – C’è mancato poco che finisse prim’ancora di cominciare l’incontro per decidere le sorti dell’alleanza. Accade intorno alle 10 quando – a meno di un’ora dall’appuntamento – al Nazareno ricevono una mail con tanto di allegato. Dentro, c’è una bozza di intesa alla quale Carlo Calenda ha lavorato per tutta la notte insieme a Benedetto Della Vedova e Riccardo Magi, i vertici di +Europa. Contiene i punti programmatici cui Azione non intende rinunciare e la conferma della conventio ad escludendum nei collegi uninominali. La richiesta è esplicita: Di Maio, Bonelli e Fratoianni, nonché eventuali fuoriusciti del M5S, potranno correre solo nei rispettivi listini sul proporzionale. Un modo per marcare le distanze all’interno del nascente schieramento, pensato a geometria variabile: la federazione liberaldemocratica, se tutto va bene, si alleerà con il Pd, il quale poi stabilirà in autonomia con quali altri partiti apparentarsi. Senza vincolo di coalizione, né candidati condivisi.
Il segretario dem va su tutte le furie. Alza il telefono e, per la prima volta dall’inizio della trattativa, perde la calma: “L’hai rifatto un’altra volta”, urla aCalenda, “questo metodo è inaccettabile, gli accordi se si fanno si scrivono in due, è evidente che vuoi far saltare tutto”. In contemporanea, ancheMagiriceve una telefonata: “Così ci mettete le dita negli occhi”, lo apostrofaDebora Serracchiani. “Ma no, ma cosa dite, era solo un modo per cominciare a ragionare più concretamente sulle cose”, rispondono i due, quasi all’unisono. “Non possiamo dare l’impressione che si parli solo di posti, dobbiamo partire dai contenuti”. SiaLetta, sia la capogruppo delPdsi placano. “Va bene, allora dateci tempo per approfondire”.
Eccola la ragione del ritardo. Il motivo per cui Calenda e Della Vedova, scortati da Richetti e Magi, si presentano negli uffici del gruppo dem 35 minuti dopo l’orario fissato. Sembra una scortesia, e invece è il filo che tiene in piedi la trattativa. Nella stanza di Serracchiani, a sorpresa, non c’è ombra di tensione: solo la consapevolezza, da parte di tutti, che questa è l’ultima chiamata. O oggi o mai più. Il documento spedito per mail viene vivisezionato, rivisto e integrato, limando anche le virgole. Per questo la discussione va per le lunghe. Anche perché il capo azionista ogni minuto si alza e va alla finestra per accendersi una sigaretta. Finché: “Fuma pure al tavolo”, gli concedono per evitare interruzioni.
L’assunto iniziale è del tutto condiviso: le prossime elezioni sono “uno spartiacque”, definiscono “una scelta di campo” tra un’Italia che siede a pieno titolo fra i grandi d’Europa e una reietta, “amica di Putin e Orban”. È la visione che impronta le due paginette di programma in cui, accanto ai cavalli di battaglia calendiani, vengono inserite tutte le parole d’ordine della sinistra: se uno dice “rigassificatori”, gli altri aggiungono sostenibilità, rinnovabili, transizione ecologica. Sulle tasse, c’è l’impegno a non introdurne di nuove e men che mai alzarle, “come peraltro hanno fatto gli ultimi tre governi di centrosinistra, incluso il mio”, puntualizza Letta. Sul sociale c’è “il contrasto alle diseguaglianze e ai costi della crisi su stipendi e pensioni”. Mentre “assoluta priorità” verrà data “all’approvazione dei diritti civili e allo Ius scholae”. In un quadro di riforme che – rimarca Della Vedova, vero artefice del patto e gran rammendatore degli strappi calendiani – sono quelle del governo Draghi, da completare e poi superare, andando oltre i limiti dell’unità nazionale.
Qualche frizione si registra giusto sui collegi. La divisione 70-30 era stata già concordata e non si discute. È molto onerosa per il Pd, ma è il prezzo dell’accordo: “Siamo il partito più grande della coalizione, nell’interesse dell’Italia dobbiamo esercitare una maggiore responsabilità”, spiegherà poi Letta ai suoi, preoccupati di restare fuori. Ciò che invece non tollera sono i veti sulle candidature: “Non possiamo dire questi sì, questi no, allora facciamo tutti un passo indietro”, suggerisce. È il lodo Fratoianni, ciò che il segretario di Si aveva proposto la sera prima in tv. E dunque, negli uninominali non correrà nessun leader: “È il giusto compromesso”, si congratula alla fine il capo dem.
Sa di aver chiesto un gran sacrificio a Di Maio, ma pure qui: se ne farà carico il Pd. Offrendo un diritto di tribuna che, fanno sapere da Iv, è stato prospettato anche a Renzi, ma lui ha rifiutato. Dal Nazareno però smentiscono. Idem Calenda. Che alla fine giura: “Da oggi non farò più polemiche, andiamo a vincere le elezioni”. In pochi tuttavia, specie fra i dem, sono disposti a credergli.