Non è vero che assomiglia all’Ulivo. Intanto perché, per la prima volta, il papa del centrosinistra non sarà “straniero”, com’era invece Romano Prodi. Non c’è più bisogno di nascondere il difetto d’origine, di dare un’altra pelle alla propria debolezza, di affidarsi a una faccia accomodante e rassicurante. Questa neonata grande coalizione è – ecco la seconda grande differenza – un altro passo, forse quello definitivo, della Bad Godesberg di Enrico Letta, della scelta definitivamente occidentale ed europea che la sinistra italiana insegue da cinquant’anni, dai tempi del “Neurocomunismo” (1976) di Berlinguer, Marchais e Carrillo: 50 anni di mal di testa.
Solo adesso, infatti, nell’estate del 2022, e proprio nelle elezioni più strane, certamente le più importanti dopo quelle del 1948, la sinistra umiliata, dimessa e bastonata ha rialzato la testa. E lo dobbiamo – a conferma che non tutti i mali vengono per nuocere – anche alla terribile guerra d’aggressione della Russia che ha trasformato l’Europa in una bandiera di piazza, la bandiera di una patria a rischio, bene illustrata da quella foto diMario Draghi,Olaf ScholzedEmmanuel Macronsul treno verso Kiev.
Ed ecco un’altra differenza tra l’Ulivo e questa nuova coalizione, non importa come la chiameranno: non c’è più il simpatico Fausto Bertinotti, con la sua funesta ideologia del “K”, il famoso “fattore K” che, evocato da Alberto Ronchey, torna sempre come un destino, visto che nella grande Russia di Putin c’è la stessa violenza del Kommunizm russo che finanziava il Pci e c’è di nuovo il terrore del Kgb. È vero che questo K sopravvive in una parte marginale della sinistra italiana, ma Enrico Letta lo ha spinto via e il fattore K, senza chiasso e senza proclami, è uscito fuori da Pd come una nuvola esce da un paesaggio.
E prima ancora della guerra c’è stata la pandemia, c’è voluto il virus per farci scoprire che l’Europa è solidarietà. Ci sono, sullo sfondo della nuova coalizione, il Pnrr e il riformismo pragmatico. La sinistra italiana, abituata a cavillare, a strillare e ad accusare ha fatto suo lo “stile Draghi” non per imitazione, che è un disvalore, ma per citazione creativa, per “facoltà mimetica”. E infatti la nuova coalizione impone a tutti l’identità nelle differenze che è stato il codice del governo Draghi. Ricordate? “Resilienza”, “debito buono” e “Whatever it takes” sono diventate le parole d’epoca com’erano stati un giorno il vaffa di Grillo, la rottamazione di Renzi, come il “torni a bordo cazzo”, come “l’austerità” di Berlinguer e “la partitocrazia” di Pannella.
Non è un’esagerazione: l’agenda Draghi è stata il lampo di Paul Klee sulla politica che produce somiglianze ed è oggi l’abracadabra della nuova coalizione di centrosinistra, che è nata ieri pomeriggio e che finalmente, come dicevamo, il papa se lo fabbricherà in casa. E infatti la coalizione promette anche che mai diventerà, come fu l’Ulivo, l’accademia del rancore che il professore delle Amorevoli Perfidie, l’allora segretario del Partito, Massimo D’Alema illuminava di sapienza. E non solo per assecondare il vizio antropologico del “pugno ergo sum”. C’era pure la stizza della politica costretta ad affidarsi appunto a un papa straniero che, con i suoi pullman, le sue biciclette e i suoi asinelli, ostinatamente si rifiutava di essere una nobile funzione senza politica, la faccia amabile del sarcasmo di D’Alema, il posteggiatore abusivo che gli teneva la macchina nel parcheggio. “Con l’autorità che ci viene dal nostro ruolo, noi le conferiamo l’incarico di candidato premier della nostra coalizione”, disse D’Alema al professor Prodi sul palco della Sala Umberto.
E invece adesso Enrico Letta è il papa che dell’altro “dolce Enrico” sta completando il lavoro, con la Nato, con la democrazia, con l’Europa, e senza mai vestirsi da trascinatore, ma con l’ironia del front runner e degli occhi di tigre. E vale la pena di ricordare due frasi del primo discorso che pronunciò da segretario: “il partito non è un concorso di bellezza” e “sento il peso di guidarlo portando il nome di Enrico” che è il nome “della dignità, del decoro”.
Ma c’è pure Carlo Calenda, che aspira all’eredità dei papi laici o forse luterani, Ugo La Malfa, Bruno Visentini, Giovanni Spadolini, la buona amministrazione, il rigore dei conti e il cattivo carattere che è stato una grande risorsa italiana, una specie di lievito del progresso. E c’è Emma Bonino, piccola, curva, col turbante in testa e senza più la smorfia da monella. Emma si porta dietro, come una nuvoletta, anche Marco Pannella, ospite sempre felicemente pericolosa, anche in questo recinto della coalizione che nasce.
E sicuramente non può esserci Centrosinistra che non ospiti, come tutti i riformisti del mondo, la sinistra che dà voce agli interessi più deboli, ai diritti sociali più “clandestini”, dagli operai agli impiegati di concetto, dagli insegnanti ai venditori ambulanti, dai piccoli e sempre più terminali bottegai ai giovani disoccupati e sotto occupati, la sinistra di Nichi Vendola e di Nicola Fratoianni che si rifiuta di diventare antiquariato, divertimento intellettuale di qualche professore che crede ancora nella famosa “egemonia”.
Come si vede, promette d’essere molto di più di un accordo elettorale e di superare tutte le mille alleanze fallite che il centrosinistra aveva tentato, questa neonata grande coalizione che il 25 settembre contenderà il governo del Paese alla destra di Giorgia Meloni, che lo stesso Letta, come si sa, ha fortemente legittimato. Anche per questo, infine, non somiglia all’Ulivo che solo la paura dell’avversario delegittimato – era l’eterno Berlusconi – teneva in piedi come una stecca ortopedica.