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Che sotto la camicia bianca e l’abbronzatura spiccata si celassero le sembianze di un camaleonte sarebbe dovuto apparire chiaro a quelli che in una bella giornata di maggio del 2018 lo convocarono in un albergo romano per offrirgli con una mano la presidenza del Consiglio dei ministri nascondendo però nell’altra i fili con cui avevano deciso di guidarlo considerandolo poco più che un burattino.  

A quel tempo Giuseppe Conte, l’uomo che si presentò nell’albergo romano “con una camicia con il primo bottone sbottonato e l’abbronzatura forte, decisa, molto estiva che gli conferiva un’aria spensierata”, era un poco noto avvocato e professore universitario e, ad attenderlo in albergo per annunciargli che lo avevano scelto per fare il premier, c’erano Luigi Di Maio (a cui si deve il racconto dell’incontro decisivo nell’hotel della capitale) e Matteo Salvini, gli improbabili alleati della maggioranza grillin-leghista accroccata dopo le elezioni. 

Quattro anni dopo, Giuseppe Conte – che nel frattempo ha fatto il presidente del Consiglio per due volte, ha stretto la mano ai potenti della terra, ha governato con la destra e con la sinistra, ha fatto cadere il governo Draghi – guida la rincorsa elettorale del Movimento Cinquestelle verso percentuali che possano far dimenticare i recenti tracolli nelle urne; gli altri due – invece – si sono lasciati alle spalle i momenti migliori delle rispettive carriere politiche. Anche perché il camaleonte che loro pensavano di tenere al guinzaglio li ha ingoiati e digeriti. 

Insomma, ce n’è abbastanza per chiedersi chi è il vero Giuseppe Conte. Quello che, sorridente accanto a Matteo Salvini, presentava i decreti sicurezza anti migranti o quello che canta “Bella ciao” al mercato di Genova? Il compassato avvocato e professore universitario dai modi affettati e gentili o il sanguigno leader di partito che sbatte i pugni sul tavolo in diretta su Instagram? Uno nessuno e centomila, per ogni stagione c’è il Conte che serve e che mostra una certa capacità di trasformazione: è stato prima l’avvocato del popolo e il Líder Máximo del sovranismo e poi il “riferimento dei progressisti”. Concavo e convesso alla bisogna, adesso l’ultima versione del contismo è tutta spostata a sinistra.

Tutto era cominciato prima delle elezioni di quattro anni e mezzo fa. L’allora capo politico del M5S in campagna elettorale lo aveva designato come ministro della Pubblica amministrazione di un ipotetico “governo del cambiamento”. La squadra era composta da uomini e donne pescate fuori dai 5 Stelle, nel mondo delle università e delle professioni. Gente rassicurante, lontana dal primo movimentismo che aveva portato in Parlamento parecchi improvvisati deputati e senatori. Dopo settimane di trattative tra i vincitori di quelle elezioni, la scelta era quindi caduta proprio sul juriste discret – definizione dell’agenzia Afp – di stanza all’università di Firenze. In quello schema, la presidenza del Consiglio si trasformava in una sorta di titolo onorifico, perché chi contava davvero erano i due vicepremier, appunto Di Maio e Salvini. Un errore di valutazione costato molto caro a entrambi. 

Messo in piedi il “pupo”, si trattava di costruirgli la squadra. A cominciare da quella che doveva gestire la comunicazione. Così, allo sconosciuto Conte venne affiancato il dominus del settore nel mondo dei 5 Stelle, cioè Rocco Casalino. Nella prima uscita da presidente del Consiglio davanti alle telecamere, Conte si ribattezzò “L’avvocato del popolo”, un sigillo, un marchio di fabbrica della stagione gialloverde agli inizi. Ma erano ancora i tempi in cui l’avvocato diventato premier avanzava il passo con timore. Fece scalpore il fuorionda carpito in aula nel quale Conte chiedeva a Di Maio, “Luigi, questo posso dirlo?”. La gavetta cominciata dal ruolo apicale, quindi. 

Dopo qualche mese, però, il presidente del Consiglio prende bene le misure. Cominciano a filtrare le prime incomprensioni tra lui e Di Maio. Salvini invece è in grande ascesa, Il registro dell'”avvocato del popolo” è ancora ben calibrato sul mood del momento. Al punto da arrivare a sostenere che il sovranismo è inserito nella Costituzione. Succede all’assemblea generale dell’Onu a New York, settembre 2018. È lì che l’allora presidente del Consiglio spiega che “quando qualcuno ci accusa di sovranismo e populismo amo sempre ricordare che sovranità e popolo sono richiamati dall’articolo 1 della Costituzione italiana, ed è esattamente in quella previsione che interpreto il concetto di sovranità e l’esercizio della stessa da parte del popolo”.  

Ospite di Porta a Porta, il Conte gialloverde confessa la sua nazionalpopolare passione per padre Pio, tirando fuori il santino dalla giacca. Riceve Vladimir Putin a Roma, coltiva un ottimo rapporto con Donald Trump, non disdegna le relazioni con la Cina di Xi Jinping, si sfoga con Angela Merkel parlando delle prime difficoltà della sua maggioranza. E quando il leader della Lega inebriato dai voti e dai mojito decide di buttare giù il governo nell’estate del 2019, Conte tira fuori gli artigli. Al Senato pronuncia un discorso affilato, quello di un professore che dopo avere esaurito la pazienza redarguisce e umilia l’alunno indisciplinato. Lo fa parlando con Salvini che siede accanto a lui. Le trattative sotterranee con il Pd erano già cominciate, serviva quindi disconoscere rapidamente il vecchio azionista di maggioranza. Quell’abiura, quel primo cambio d’abito, permise a Conte di farsi accettare come nuovo capo del governo con una maggioranza diversa. Via l’alleanza di destra con la Lega, largo al nuovo accordo, a sinistra, con il Pd. 

Cambiano alleanze e strategie, ma l’avvocato del popolo non fa un plissé. La seconda stagione del contismo, però, parte in sordina e così procede fino a quando non ci si mette di mezzo la Storia. Nel bene e nel male. La pandemia a marzo 2020 cambia il mondo e Conte si ritrova a guidare il Paese nella tempesta. Le sue dirette social con i dpcm annunciati con aria solenne e che di volta in volta stravolgono la vita dei cittadini diventano un format, un appuntamento imperdibile per milioni di italiani spaesati e impauriti. L’avvocato è rassicurante, chiede sacrifici a tutti ma mostra coinvolgimento emotivo e impegno. Gli indici di gradimento schizzano alle stelle e Conte si ritrova ad essere il politico italiano più amato. Dietro le quinte il rapporto con il Pd di Nicola Zingaretti si rafforza, anche grazie all’amicizia e ai consigli di Goffredo Bettini. 

Il camaleonte ha di nuovo cambiato pelle. Adesso, mostra quella di uomo delle istituzioni, di garante della stabilità. Così quando Matteo Renzi fa cadere il suo governo e a Palazzo Chigi al suo posto arriva Mario Draghi, Giuseppe Conte fa buon viso a cattivo gioco e consiglia al M5S di sostenere l’esecutivo dell'”odiato” banchiere. Quando lascia Palazzo Chigi, tutti si domandano: cosa farà adesso? La tessera, o per meglio dire l’iscrizione a Rousseau, Conte non l’aveva mai avuta. Ma il Movimento in crisi di identità e di consensi decide di puntare sugli ancora elevatissimi indici di popolarità dell’avvocato e di offrirgli il ruolo di leader: vieni e comanda tu. Anche in questo caso Di Maio fa male i suoi calcoli e finisce fagocitato dalla falsa mitezza di Conte. Che, nel frattempo, ha di nuovo cambiato pelle.  

Giuseppe Conte, con la sua compagna Olivia Paladino, saluta i dipendenti di Palazzo Chigi mentre lascia la sede del governo il 13 febbraio 2021. (Foto di Alberto Pizzoli/POOL/AFP via Getty Images) 

L’ex premier scardina tutti i vecchi equilibri: rompe con Davide Casaleggio, cambia lo Statuto dei 5 Stelle trasformandoli in partito, litiga con Beppe Grillo e poi lo emargina, alla fine fa fuori tutta la vecchia guardia del M5S mantenendo il tetto dei due mandati. In mezzo, tenta di far entrare i 5 Stelle nel gruppo socialista in Europa, poi nei Verdi. Digerisce, infine, anche la scissione di Di Maio che lascia il Movimento portandosi dietro un bel numero di parlamentari. 

Con Draghi c’è una palese e reciproca mancanza di stima. Conte prima si leva lo sfizio di sbarrargli la strada per il Quirinale, poi abbandona definitivamente i toni felpati ed eccolo in versione agitatore. Pone questioni su tutto: la riforma della giustizia, le spese militari, il superbonus, l’inceneritore e così via. 

L’azzardo finale è quello di andare alla rottura totale, mettendo in conto la fine (per ora) del rapporto con il Pd e del fronte progressista. Via la pochette, via la giacca, maniche di camicia arrotolate, Conte gira l’Italia scippando agli ex alleati temi, sensibilità e piazze; fa dimenticare in fretta i vecchi trascorsi con la Lega e riporta il Movimento nel suo splendido isolamento, solo contro tutti, un vendicatore del popolo contro il mainstream dei potenti. È l’ultimo, finora, cambio di pelle del camaleonte. Quello con il quale affronta una campagna elettorale partita in salita, ma che adesso pare aver cambiato verso. 

Le relazioni pericolose 

Ma il semisconosciuto avvocato diventato presidente del Consiglio era davvero, quando cominciò la sua improvvisa e fulminante carriera politica, un uomo lontano dai salotti, dagli intrighi, dalle relazioni pericolose? Vale la pena, a questo punto, di tornare indietro. Di tornare alla domanda che tutti si fecero quando Giuseppe Conte saltò fuori dal cilindro di Di Maio e Salvini per imboccare la strada che portava a Palazzo Chigi. “Chi è? Qual è la sua storia?”. La prima risposta era sempre la stessa: “Un importante avvocato d’affari. Uno stimato professore universitario di diritto privato”. 

Il presidente del Consiglio Giuseppe Conte e il ministro degli Esteri Luigi Di Maio durante il voto di fiducia alla Camera dei deputati il 9 settembre 2019. (Foto di Andreas Solaro/AFP via Getty Images) 

Ed effettivamente era la risposta corretta: ordinario all’università di Firenze, il professor Conte – senza mai sfiorare la politica – aveva fino a quel momento avuto una brillante carriera professionale e accademica. Era avvocato di note aziende ed enti. Con uno studio prestigioso nel pieno centro di Roma, in un bellissimo palazzo di piazza Cairoli. Conte aveva poi un maestro famoso: il professor Guido Alpa, il principe del foro d’Italia, con il quale condivideva lo studio importanti patrocini e numerose pubblicazioni accademiche. E proprio sul rapporto con il professor Alpa che Repubblica aveva scoperto qualcosa. 

Al suo maestro Conte doveva, in qualche maniera, anche la cattedra da ordinario. Alpa era infatti commissario al concorso che nel 2002 Conte vinse all’università Vanvitelli di Caserta per diventare ordinario. Negli atti non c’era però traccia della frequentazione: nessun riferimento alle pubblicazioni accademiche comuni. Nessuna menzione dei patrocini comuni: insieme avevano sicuramente difeso l’Authority della privacy in una causa contro la Rai, mentre spesso si erano “sostituiti” in aula. Soprattutto, mai alcun riferimento a quello studio in comune. Che a tutti era sembrato condiviso: stesso numero di telefono, stessa segretaria, la targhetta davanti alla porta. Conte e Alpa avevano giurato a Repubblica di essere soltanto “coinquilini”. “Io e il professor Alpa non abbiamo mai avuto uno studio professionale associato né mai abbiamo costituito un’associazione tra professionisti”, si legge nella lettera che Conte ha scritto al nostro giornale. Peccato che nel suo curriculum si legga: “Dal 2002 ha aperto con il professor Alpa un nuovo studio legale”. Di più: si è scoperto che anche precedentemente, proprio quando il concorso si teneva, Conte aveva una stanza nello studio del professor Alpa in via Sardegna a Roma. Tutto normale? Nessun conflitto di interessi? “Nessuno!” aveva ribadito il professor Conte, non vedendo alcuna anomalia nel farsi giudicare da un “coinquilino”.

D’altronde l’intesa professionale tra lui e il suo maestro Alpa è certificata da decine di difese comuni. Una di queste è finita all’attenzione della procura di Roma, seppur indirettamente. La storia è quella, intricatissima, del Molino Stucky, uno degli alberghi più belli di Venezia, sull’isola della Giudecca. La struttura era di proprietà della società Acqua Marcia, oggi fallita, di Francesco Bellavista Caltagirone. Conte ottenne, nell’ambito del concordato, una consulenza da 400mila euro. Consulenza che, ha raccontato l’avvocato Pietro Amara (l’uomo dei misteri e delle calunnie), avrebbe aiutato lui, per il tramite del suo sodale Fabrizio Centofanti, a fare ottenere. Conte chiaramente ha sempre bollato come “calunnie” le parole di Amara. La procura di Roma ha aperto un fascicolo su quelle consulenze, pur avendo non pochi problemi a ottenere dall’ex premier gli atti ad esse relativi. Ma se quelle di Amara, dice Conte, sono “calunnie”, certo è che in questa storia c’è un fatto: il consulente del fallimento Conte diventa poi il consulente dell’acquirente di uno dei beni più preziosi venduti dopo quella procedura di fallimento: il Molino Stucky, appunto. Il gioiello di Venezia. 

Lo studio Alpa è teatro anche di un’altra vicenda poco limpida e che ruota attorno alla figura dell’avvocato Luca Di Donna, ex compagno di studio di Conte. Secondo la procura di Roma, che lo ha posto al centro di un’indagine, trafficava o millantava influenze usando il nome dell’allora premier. Il sospetto nasce da un incontro avvenuto nello studio Alpa il 5 maggio 2020, in cui era presente tra gli altri anche il generale della Finanza Enrico Tedeschi, capo di gabinetto dell’Aise. Quel 5 maggio non è un giorno qualunque: Di Donna, insieme con il suo collega e amico Gianluca Esposito, già direttore generale del Mise, aveva convocato l’imprenditore umbro Giovanni Buini per parlare di forniture di mascherine per la Struttura commissariale. Promettendo a Buini – secondo la ricostruzione dei pm – che, grazie alle loro conoscenze a Palazzo Chigi e al prezzo di una commissione dell’8 per cento, erano in grado di garantirgli gli appalti del Covid. “Di Donna è il braccio destro di Conte”, ripete più volte Esposito davanti agli occhi dell’imprenditore. L’ex premier, però, ha sempre negato ogni coinvolgimento con gli affari di Di Donna. Prima di mettersi l’ultima maschera da camaleonte.

Il presidente del Consiglio Giuseppe Conte e il ministro dell’Interno Matteo Salvini durante il duro discorso al Senato del 20 agosto 2019. (Foto di Andreas Solaro/AFP) 

Non solo Reddito: la partita che si gioca al Sud 

di Isaia Sales 

Questa insolita campagna elettorale ci sta consegnando anche un finale a sorpresa. Il tema monopolizzante di politica interna è diventato il Reddito di cittadinanza e i 5Stelle appaiono in grande ripresa, soprattutto al Sud. Tutti gli oppositori più accaniti al mantenimento di questo strumento di sostegno dei ceti meno abbienti hanno fornito a Giuseppe Conte un formidabile assist: al centro del dibattito c’è una misura proposta, realizzata e oggi strenuamente difesa dal Movimento che lui presiede. Il suo partito, il più in difficoltà all’inizio della campagna elettorale dopo la fiducia negata a Draghi e l’esclusione dall’alleanza di centrosinistra, si è trovato a ricevere un’insperata spinta propulsiva in questa ultima fase, con un feeling ritrovato con i propri elettori, con il Sud e con l’acquisizione di nuovi consensi che provengono da ambienti della sinistra storica e del volontariato cattolico. 

Giuseppe Conte e il presidente della Camera Roberto Fico durante un giro elettorale al rione Sanità a Napoli (ansa)

L’impossessarsi dei 5Stelle di un tema sociale di grande popolarità sta determinando delle conseguenze nella percezione di altri soggetti politici che nel passato erano caratterizzati soprattutto dalle rivendicazioni economico/sociali della propria base elettorale. Il Pd, erede di una lunga storia della sinistra italiana, sembra collocarsi nella percezione dell’elettorato come partito delle riforme istituzionali, rassicurante nella collocazione internazionale dell’Italia, baluardo dei diritti civili ma distratto sulle condizioni economiche di gran parte della popolazione. La materialità della vita quotidiana e delle disuguaglianze impressionanti che continuano a caratterizzarla sembra non fare parte più del bagaglio politico, ideale e umano di un dirigente del Pd, come se si fosse sfaldata nel tempo quella solida cultura politica e sindacale costruita a difesa del mondo del lavoro. E si è sfaldata anche l’identificazione tra sinistra italiana e gli esclusi dalla società.Una doppia identità storica sembra, dunque, essersi consumata. Quando la sinistra si separa dall’idea di uguaglianza e di giustizia sociale recide inevitabilmente una parte delle sue radici e ciò ha una immediata ripercussione sulla sua identità. Se volessimo usare una parabola cara a Michele Serra, potremmo dire che il Pd non rappresenta né gli “sdraiati” né quelli “caduti a terra” ma solo “i seduti”, quelli che partono da una posizione sociale già acquisita e da lì costruiscono la loro idea di mondo e di società. Letta ha voluto presentare il Pd di oggi come “una forza tranquilla” e affidabile ma a discapito di una radicalità indispensabile in una situazione sociale nella quale il disagio economico è a livelli di guardia. Affidabilità e radicalità solo per la sinistra italiana sembrano due caratteristiche politiche inconciliabili. 

L’impressione è che nel nostro Paese non esista una politica per i deboli, quelli che sono tali per ragioni fisiche, familiari, culturali, economiche o territoriali. Le diseguaglianze restano una delle questioni fondamentali del nostro tempo e si porranno nei prossimi mesi problemi seri per la tenuta sociale.

Tra le disuguaglianze di più lunga persistenza della nostra storia nazionale c’è quella territoriale tra Centro-Nord e Sud d’Italia. Proprio per questo motivo una forza politica che vuole rilanciare la lotta alle diseguaglianze non può non occuparsi di Sud. Come controprova, c’è il fatto che chi non si preoccupa di sanare le differenze territoriali (anzi le vuole accentuare con l’introduzione dell’Autonomia regionale differenziata) è la Lega di Salvini, Zaia, Fontana e Fedriga, che spingerà ad esasperare questa richiesta dopo le elezioni. Come si concilia la rivendicazione di più competenze e più soldi solo ad alcune Regioni del Nord con l’idea di poteri forti allo Stato centrale, come nella tradizione del partito della Meloni? La proposta di approvare nel primo consiglio dei ministri l’Autonomia regionale differenziata è una vera e propria provocazione in una nazione nella quale si è curati diversamente a seconda di dove si risiede; nella quale chi è malato oncologico deve affrontare la lontananza da casa per ricevere cure adeguate; dove chi abita in Trentino vive quattro anni più a lungo rispetto a un cittadino campano; dove i bambini che nascono in Veneto possono andare all’asilo pubblico, mentre ciò è quasi impossibile in Calabria; dove ci si può recare da Milano a Napoli in treno in quattro ore e da Napoli a Palermo in 12; dove si va a studiare nelle università del Centro-Nord per avere una chance in più dopo la laurea; dove nel Sud da oltre un secolo e mezzo ci si continua a far carico del fardello di allevare e istruire manodopera esportabile nel Nord o all’estero senza una strategia realistica per porvi fine. 

Uno striscione a sostegno di Conte durante un suo comizio a Giugliano (Napoli), il 21 settembre 2022 (ansa)

Purtroppo questa proposta (certo con intenti diversi) è condivisa anche dall’Emilia-Romagna, nel passato simbolo della solidarietà e del buon governo della sinistra italiana. Come si concilia la definizione di “Lega del Sud” che Letta dà dei 5Stelle con l’associarsi di una “Regione rossa” alle richieste dei presidenti leghisti del Nord sull’Autonomia differenziata? L’Italia non è uno Stato federale, eppure sono stati concessi alle Regioni poteri tali che hanno spezzato la percezione dell’Unità della nazione.

Abbiamo affrontato la pandemia, la crisi sanitaria più devastante della storia repubblicana, con 20 diversi sistemi sanitari locali rallentando decisioni da prendere velocemente e pregiudicando una risposta efficace e uniforme. Il regionalismo italiano va rivisto innanzitutto nelle competenze sanitarie. Nel Sud una revisione del regionalismo è ancora più necessaria. Rappresentare Vincenzo De Luca e Michele Emiliano come il miglior Sud – come fa Enrico Letta – fa venire spontanea la domanda: e il peggiore quale sarebbe? Il Pd nel Sud si è schiacciato sull’establishment, sulla casta al potere, sul notabilato, sul familismo, sull’ereditarietà dei ruoli istituzionali e non è in grado di presentare un’esperienza decente di governo. 

Ma, attenzione, la questione meridionale non può essere ridotta solo alla questione della sopravvivenza o meno di una giusta e sacrosanta modalità di assistenza pubblica per i meno abbienti. È interesse di tutti i meridionali non farsi schiacciare su questa esclusiva rappresentazione dei loro problemi, lasciando in ombra tutte le potenzialità che il Sud può avere in serbo per una stabile ripresa dell’Italia. Il periodo migliore dell’economia italiana, il nostro Trentennio d’oro, è stato quello in cui le tre realtà territoriali, il Nord, il Centro e il Sud crescevano insieme a tassi elevati. Il lento declino dell’Italia è cominciato dopo il 1975 quando una parte, quella meridionale, ha cessato di crescere. Punto. Tutto il resto sono spiegazioni del declino non convincenti. Se una nazione non partecipa allo stesso livello di benessere in tutte le sue parti, nel produrlo e nel beneficiarne, diventa una nazione menomata nelle sue stesse potenzialità. Per fare questo non basta certo il Reddito di cittadinanza. Ma senza il dibattito su di esso, il Sud non sarebbe stato nemmeno presente nella campagna elettorale.

Giuseppe Conte a Porta a Porta Speciale Elezioni il 22 settembre 2022 (agf)

Il professore e l’invenzione della “quasità” 

di Francesco Merlo 

Titolare di un metodo che ormai sfida Andreotti, Giuseppe Conte ha consegnato ai libri di storia il nuovo trasformismo italiano, quello del “quasi”, che gli ha permesso, per esempio, di essere un capo di governo quasi filoamericano e quasi filocinese e ora gli permette di schierarsi quasi con l’Ucraina e quasi contro l’Ucraina. È la stessa quasità del progetto mini Tav, una quasi Tav che i no Tav non avrebbero potuto più contestare, la stessa del “lockdown parziale”, è il quasi inglese Submerged Floating Tube Bridge, un quasi ponte di Messina sottomarino, invisibile e poco ingombrante. Lo so, fa ridere come la donna un poco incinta di Maupassant e il Ringo di Celentano che “respirava come un morto”.  

E, invece, immaginate seriamente la quasità, sia come una scienza politica, che a sinistra socchiude la porta alla destra e a destra la socchiude alla sinistra, sia come l’antropologia del descamisado con la camicia, che a Genova intona “Bella ciao” ma sui soffiati, e a Napoli dice “non tengono scuorno” con l’aria impertinente del quasi straniero in piazza. La quasità di Conte è una parabola di successo proprio perché sin dall’esordio nessuno prendeva sul serio, tra il vaffa di Grillo, la rottamazione di Renzi e i pieni poteri di Salvini, un quasi leader, vice dei suoi vice, un premier “nel frattempo”.  

I giornali americani scoprirono che anche come professore era un quasi perché il curriculum era quasi vero. Cinque anni dopo, persino il linguaggio – “l’interlocuzione”, “pretermessi”, “salvo intese”… – è quasico.  

Conte è diventato (per ora) il quasi Lula italiano, ma con la giacca di sartoria sulla spalla, la cera nera sui capelli e la clamorosa assenza della pochette, un vuoto che stropiccia verso sinistra l’aria conversativa e indulgente del trasformista che non ha più bisogno di voltare la gabbana per esclamare “nessuno ci dica che Putin non vuole la pace”: gli basta convocare il gemello di stesso e aggiungere: “chi mi definisce filoputiniano mi diffama”. Vuoi vedere che Conte è il quasi genio che ha trovato la soluzione al dubbio di Amleto? Il terzo corno tra essere e non essere è il quasi. 

Giuseppe Conte durante un comizio elettorale a Catania (fotogramma)

L’uomo che sussurra all’avvocato 

di Serenella Mattera 

 Se la pochette è un vezzo personale, da barone del diritto, l’immagine pubblica di Conte è un’opera firmata Rocco Casalino. L’alter ego, lo stratega, il maestro di social e di telegenia. L’ex inquilino del Grande Fratello votato alla causa cinquestelle. “Il portavoce”, preferisce lui, come da titolo dell’autobiografia. 

È Casalino a plasmare l’avvocato del popolo, quando l’armata gialloverde lo catapulta alla guida del governo. Gl’insegna a parlare dritto in camera, frasi semplici, toni suadenti. Si sceglie un ufficio spazioso al primo piano di Palazzo Chigi e da lì programma dirette e post acchiappa-clic, pianifica con messaggi vocali ai giornalisti una comunicazione insieme cinica e naïve, pettinata e sentimentale. 

Non sa stare nell’ombra, il portavoce. Scatena putiferi quando si fa scappare l’emoticon di un dito medio in risposta a una domanda su Macron o annuncia “megavendette” sui burocrati del Tesoro. Ma il sodalizio con Conte regge, la popolarità del premier cresce anche nelle intemperie del lockdown, grazie alla sceneggiatura certosina degli annunci a reti unificate. Trentadue mesi fianco a fianco, a riempire l’album dei ricordi: le birre notturne con Angela Merkel, le pacche sulle spalle da Donald Trump. Poi la fine di tutto, il banchetto in piazza per recitare l’addio, la commozione all’uscita dal palazzo del governo, i sondaggi che iniziano a calare.

“Molla Draghi, molla il Pd”, consiglia Casalino a Conte quando ancora lui si attarda a decidere cosa fare da grande. Rocco soffre, trasloca al partito e dal M5s riceve doppio stipendio alla Camera e al Senato, ma non riesce più a “volare alto”. Ecco perché il voto anticipato arriva come una liberazione. Anche se Conte si fa plasmare un po’ meno di prima. Anche se il sogno di farsi deputato sfuma presto, per colpa di un profilo in fondo divisivo. Casalino resta portavoce, si mette a tracciare la via della rimonta, tutta TikTok e televisioni, prima di calare nelle piazze l’avvocato. E fare di lui il candidato del popolo.

Il presidente Donald Trump con Giuseppe Conte nell’incontro bilaterale tenuto durante il summit Nato a Londra nel 2019. (Foto di Nicholas Kamm/AFP via Getty Images) 

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