Sul fronte di Bakhmut, dove Putin ha schierato i soldati più feroci. “I russi stanno per sfondare”

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FRONTE DI BAKHMUT (DONETSK) – Lungo i 2.500 chilometri del fronte di Sud-Est c’è un punto dove l’offensiva russa non è per niente in difficoltà e, anzi, sta sfondando. Bakhmut. O, come l’hanno ribattezzata i generali di Mosca, “l’artiglio dei falchi”. La città della regione di Doneskt che è stata fino alla scorsa estate il perno della difesa ucraina (da qui si muovevano le truppe di rinforzo che salivano fino a Severodonetsk sotto assedio) sta, neanche troppo lentamente, scivolando in una morsa. I russi sono al di là del fiume, a cinque chilometri dal ponte semi-distrutto che divide in due Bakhmut. Sono talmente vicini che tirano sui palazzi con i cannoni da 125 millimetri montati sui loro T90, i carri armati più moderni e letali.

“Hanno concentrato nelle campagne i soldati più feroci e preparati, e le armi più devastanti a loro disposizione”. Dyma, agente della polizia militare, indica le posizioni del nemico sulla mappa sul telefonino. “Sono qui, qui, qui, arrivano da tutte le parti. Artiglieria pesante, missili, aviazione, tank che sbriciolano gli edifici della periferia. Ci sono i mercenari della Wagner, i ceceni di Kadyrov, le truppe scelte…”. 

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Ecco perché artiglio dei falchi: questa città fantasma è diventata cruciale per la strategia militare del Cremlino. Hanno dispiegato nella zona le loro risorse migliori contro la prima linea ucraina riparata in trincee che ricordano quelle della Prima Guerra Mondiale: buchi scavati a mano nella terra che si confondono coi buchi scavati dai mortai, in un paesaggio che migliaia di esplosioni hanno reso lunare. “Verdun, Kursk, Stalingrado? No, sono le posizioni ucraine vicino a Bakhmut”, scrive un blogger militare postando su Twitter un video di una trincea tra scheletri di alberi carbonizzati. 

Lo ammette anche il presidente Zelensky, nei suoi messaggi serali alla nazione. “Bakhmut è il posto dove siamo più in difficoltà”. Eravamo stati qui, nel cuore del Donbass, alla fine di maggio, quando la città nutriva ancora qualche speranza nonostante la differenza di forze in campo e i soldati di Kiev si ritrovavano tutti al bar Lucky a bere il caffè prima del fronte. Ora sembra di essere in un altrove. Le bombe hanno cambiato i connotati urbani di alcuni quartieri. Il bar Lucky è chiuso. In tre settimane, condizioni meteorologiche permettendo, questa potrebbe essere la punta di una vasta offensiva a tridente: a nord dalla Bielorussia, al centro da Bakhmut, a sud sulla direttrice di Melitopol. L’obiettivo pare essere quello di costringere gli ucraini a sparpagliare forze e artiglieria, logorandone le risorse e rallentando la controffensiva verso Kherson.

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Dyma esce dal blindato parcheggiato davanti all’unico market rimasto aperto nel quartiere centrale. L’eco dei bombardamenti rimbalza tra le mura di case deserte. Prima della guerra Bakhmut contava 70mila abitanti, adesso sono non più di 10mila. Soprattutto vecchi, persone sole, famiglie che non vogliono o non possono andarsene. C’è chi si è messo a bere l’alcool che si compra in farmacia, per passare la nottata. All’ora della colazione e a pranzo gli ultimi abitanti rimasti tagliano i rami degli alberi e accendono fuochi per cucinare nei cortili di condomini senza luce, gas, riscaldamento.

“Sono venuti a chiedermi di evacuare, ma mi sono rifiutata”, racconta Inna, 47 anni. Porta un fazzoletto blu sui capelli e una vecchia giacca per ripararsi dal freddo che qui, già adesso, morde. Alle sue spalle, sua madre sta riscaldando l’acqua in una pentolone su un forno improvvisato costruito con fango, mattoni e rami di ippocastano. “Non puoi mettere tutta la tua vita in una valigia e andartene così, dal giorno alla notte. Volete sapere di chi è la colpa di tutto questo? Dei politici, dei politici sporchi! Sia quelli ucraini, sia quelli russi, sia Zelensky, sia Putin. Negli ultimi anni non hanno fatto niente per evitare che la situazione degenerasse”.

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Mentre parla, un lanciamissili ucraino posizionato da qualche parte dietro una schiera di palazzi risponde all’artiglieria russa. Inna e sua madre neanche ci fanno più caso. “Guardate in che condizioni siamo costrette a vivere, siamo nel mezzo di una guerra che non sappiamo quando finirà. Dio li maledica tutti”.

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