Morte Maddalena Urbani, condannato a 14 anni il pusher. La famiglia: “Si sarebbe potuta salvare”

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Giacca grigia, barba rasa. Abdulaziz Rajab resta immobile mentre ascolta la sentenza con cui la corte d’Assise di Roma lo condanna a scontare 14 anni di carcere per la morte di Maddalena Urbani, dovuta a un’overdose avvenuta nell’appartamento del siriano, dalle parti di via Cassia. Secondo i giudici è colpevole di omicidio volontario con dolo eventuale.

L’imputato è immobile, come quella sera quando evitó di chiamare i soccorsi pur vedendo che la ragazza (figlia ventunenne di Carlo Urbani, il medico ucciso 19 anni fa da quella sindrome che per primo era riuscito a individuare, la Sars) era agonizzante. E poco importa se per il Rajab “era come mia figlia, erano due gocce d’acqua”, come ha dichiarato lui stesso in aula. Tra il 26 e il 27 marzo del 2021 ogni mezzo era lecito, bisognava solo evitare di contattare le forze dell’ordine, di far emergere che il 64enne avesse fatto entrare gente in casa sua nonostante fosse ai domiciliari per droga. 

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Da qui la telefonata a un amico, un improvvisato soccorritore che ha praticato massaggio cardiaco appreso vedendo la tv. Poi una puntura e un bicchiere di acqua e limone. Ma il numero del 118 fu composto solo quando ormai era tardi. Anche l’amica della ragazza Kaoula El Haouz, oggi assente in aula, non fece molto per aiutare la vittima. Per questo motivo è stata condannata a scontare 2 anni di carcere per omissione di soccorso.

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I fatti sono noti. Madalena era arrivata a Roma il 26 marzo insieme alla sua amica Kaoula: “Ha raccontato di essersi conosciuta con Maddalena circa un mese prima e di essere partite insieme alla volta di Roma il 26 marzo 2021 per andare a trovare dei parenti di Maddalena”, si legge nell’ordinanza di custodia cautelare scaturita dall’indagine del sostituto procuratore Pietro Pollidori e dell’aggiunto Nunzia D’Elia. “Secondo il racconto della Kaoula ElHaouzi, arrivate nella Capitale, avevano prima girovagato per la città, poi Maddalena si era allontanata per qualche tempo, ma ritornata dall’amica, era stata colta da un malore dal quale però si era ripresa bevendo acqua e zucchero. Infine le due giovani erano arrivate in via Vibo Mariano presso l’abitazione di Rajab Abdulaziz, uomo di nazionalità siriana che le aveva ospitate”.

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Rajab è un pregiudicato siriano. In casa sua le condizioni di Maddalena precipitano. Ma l’uomo “ha accettato che la morte di Maddalena Urbani potesse verificarsi con il suo comportamento omissivo, essendogli del tutto chiare le condizioni di salute della ragazza”, aveva scritto il giudice. L’arrestato si è limitato a chiamare due amici dalle dubbie competenze mediche. Avevano dato consigli e somministrato iniezioni di naloxone”, un farmaco solitamente utilizzato per contrastare l’azione degli oppiacei. Interventi che non sono bastati a salvare la vita di Maddalena, morta intorno alle 12,30 del 27 marzo scorso Maddalena, sopraffatta da quel mix di droghe e farmaci e “dall’assoluto disinteresse (di Rajab ndr) per le conseguenze letali delle sue scelte egoistiche”.

“Attenderemo le motivazioni e ricorreremo in appello convinti del fatto che il mio assistito ha cercato di fare di tutto per salvare la ragazza”, commenta l’avvocato della difesa di Rajab, Andrea Palmiero. “Ciò che interessava alla famiglia era conoscere cosa era avvenuto e accertare, come emerso dal processo, che la ragazza se soccorsa si sarebbe potuta salvare. Hanno avuto oltre 15 ore, ma i soccorsi li hanno chiamati solamente quando era già deceduta”, è il commento degli avvocati Giorgio Beni e Matteo Policastri, legali della famiglia Urbani. In aula erano presenti la mamma di Maddalena, scoppiata in lacrime dopo la sentenza, e uno dei fratelli.

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