Forza Italia vuole 12 sottosegretari: “Senza di noi il governo cade”

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Come si suol dire in questi casi, è stato mandato un segnale. Forza Italia vuole almeno undici-dodici sottosegretari. Una specie di avvertimento al resto della coalizione, perché “non possiamo certo replicare lo schema dei ministeri: senza di noi il governo non sta mica in piedi”, riflette un azzurro di peso. Ma anche un messaggio interno e chi doveva capire ha capito. L’intervista di ieri di Giorgio Mulé a Repubblica, condita di giudizi non leggeri (“ha provocato disappunto l’atteggiamento di Giorgia Meloni”, “ci sono interventi sulla spina dorsale del partito ormai indefettibili. Berlusconi è il primo a saperlo”), rimbalza di chat in chat.

Di sicuro il vicepresidente della Camera, giornalista e direttore di lungo corso nelle testate della “real casa”, prima di decidere di parlare si è consultato con chi di dovere, per così dire. In ballo questa settimana ci sono le nomine di sottogoverno, 41-42 posti. Calcolando il peso percentuale parlamentare della coalizione, ovvero il 18-19 per cento, a Fi spetterebbero 7-8 sottosegretari. Ecco, fin qui la matematica, la politica però è un’altra cosa, perché il Cavaliere e un pezzo di partito si attendono di più. I cinque ministeri incassati dai forzisti infatti, come peso specifico, valgono meno di quelli affidati alla Lega, è il ragionamento. Poi Berlusconi confida nel fatto che come sottosegretari vengano premiate persone a cui tiene particolarmente.

Oggi come oggi Antonio Tajani e Anna Maria Bernini, vicepremier e ministro degli Esteri il primo e ministra all’Università e ricerca la seconda, accentrano su di sé anche le cariche di coordinatore e vicecoordinatrice del partito. “Non è che si può guidare un partito per poi conquistare i posti migliori per sé”, è un commento velenoso sentito più volte in queste ore tra gli azzurri. Mettere in discussione il doppio ruolo di Tajani e Bernini è quindi funzionale a ricordare quel che non va, o non andrebbe in Fi qualora non si tenesse conto degli equilibri interni. Ad esempio il sud è stato sottorappresentato nelle nomine fatte finora. E va bene che poi ci sarà da discutere dei presidenti di commissione, dei delegati d’aula eccetera, ma non è abbastanza. Scalpitano i calabresi Mario Occhiuto e Giuseppe Mangialavori, il campano Stefano Caldoro e idem Fulvio Martusciello, in Sicilia c’è Gabriella Giammanco. Regioni dove Fi è andata più che bene, in certi casi tallonando Fratelli d’Italia: quasi l’11 in Campania, lo stesso in Sicilia, il 16 in Calabria. L’ex capogruppo alla Camera Paolo Barelli dovrebbe avere una compensazione, vista la non riconferma alla guida del gruppo (“Non so nulla, sono fuori per impegni familiari”, assicura). Chiusa la questione meridionale, ci sono altri nomi che per Berlusconi devono esserci: dal consigliere in temi giuridici Francesco Paolo Sisto a Valentino Valentini, esperto di politica estera e però accusato di eccesiva vicinanza alle ragioni della Russia, da Alberto Barachini – molto vicino a Licia Ronzulli – a Francesco Battistoni, finendo con qualche ex parlamentare rimasto fuori, tipo Andrea Mandelli o Valentina Aprea. Di sfondo rimane la disfida per chi prima o poi dovrà raccogliere la pesante eredità del fondatore, con due aree che si guardano con reciproco sospetto. Ovvero chi fa riferimento a Ronzulli e chi a Tajani, con il secondo considerato più allineato con il governo a trazione meloniana. Per ora il Cavaliere è saldo in sella, interverrà al Senato per annunciare la fiducia con un discorso che si preannuncia “alto”, da padre nobile della coalizione ma anche del Paese. Privatamente però non nasconde la propria delusione, si racconta ch, e quando nel bel mezzo delle trattative sui ministeri, si è ritrovato il telefono di Giorgia Meloni staccato non l’abbia presa bene. L’occasione per rimediare sarebbe questa, quindi. Solo che fuori da Fi ormai comanda lei, la sua ex ministra.

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