Quanto si è allenata Giorgia Meloni per questo giorno. Va bene l’emozione del giuramento, impagabile l’emozione dell’ingresso a Palazzo Chigi e del rito della campanella, ma è con il discorso alle Camere per la fiducia al governo che si afferra davvero il bastone del comando. Meloni ha addomesticato persino la voce. A lungo in passato ha lavorato con esperti a correggere i difetti della sua oratoria, non tanto la dizione, quel romanesco che è la cadenza della sua orgogliosa estrazione popolare, ma proprio i toni, il ritmo, le pause, quella tendenza a trasformare la foga del ragionamento in decibel furiosi, volto paonazzo, urla sguaiate.
A Montecitorio Meloni parla da presidente del Consiglio, conosce l’importanza della forma e sa che talvolta è utile anche a mascherare l’ambiguità della sostanza. Non sempre le riesce. La replica è più stizzita e ruspante del discorso preparato, levigato e calibrato. La chiave è già nelle prime battute: Meloni è il primo presidente del Consiglio di un governo politico dopo molti anni di tecnici, staffette di partito, larghe intese, patti bicolore e unità nazionale. Questa è la sua forza. Qui, e non nella lista delle cose da fare, ancora molto vaga, sta il cuore del suo messaggio, che infatti un po’ deprime chi sperava in afflati draghiani o posture bipartisan: “Negli ultimi 11 anni – dice Meloni – c’è stato un susseguirsi di maggioranze di governo pienamente legittime sul piano costituzionale, ma drammaticamente distanti dalle indicazioni degli elettori. Noi oggi interrompiamo questa grande anomalia italiana, dando vita ad un governo politico pienamente rappresentativo della volontà popolare”. Il primato della politica. Rivendicato e offerto in condivisione alle minoranze, con convinzione e furbizia perché, ora che il potere lo detiene lei, invita l’opposizione a rinunciare alla demonizzazione dell’avversario: “Indebolisce tutti noi, e quando la politica è debole, sono altri che si fanno forti”.
Meloni ringrazia chi va ringraziato, non manca nessuno, le istituzioni nazionali e sovranazionali, Sergio Mattarella e la presidente della Commissione Ue Ursula von der Leyen, Mario Draghi e il presidente del Consiglio Ue Charles Michel, pure papa Francesco, ma a differenza dei predecessori non parla rivolta agli alleati, agli azionisti politici, ai mercati, è un discorso ai suoi elettori, molto connotato – lo stop ai barconi e al reddito di cittadinanza, il condono detto pace fiscale, il presidenzialismo – che punta alla sottomissione dei partiti alleati, qui comando io, e a distillare una punta di invidia nella mente degli elettori altrui, come a dire: ho vinto con le nostre idee, voi a chi avete affidato le vostre? Si definisce “underdog“, termine che in inglese definisce i sottovalutati che poi vincono, un’eco trumpiana non casuale, c’è una suggestione internazionale, l’idea che lo schema italiano sia dentro un sommovimento mondiale.
Il momento più divertente è quando chiede dell’acqua a Matteo Salvini, seduto alla sua destra, e fuori onda sibila in dialetto: “Sto a morì”. Il momento che testimonia i suoi sentimenti verso Silvio Berlusconi è quando allunga una carezza ad Antonio Tajani, seduto alla sua sinistra, ormai ex pupillo del Cavaliere. Il momento più efficace è quando, durante la replica, si gira verso i banchi del Pd e dice: “Ho sentito dire che io vorrei le donne un passo dietro agli uomini: mi guardi, onorevole Serracchiani, le sembra che io stia un passo dietro agli uomini?”. Il momento più sincero, anche involontariamente, è quando rivendica: “Non ho cambiato idea su niente”.
Discorso Fiducia, tutti i fuorionda di Meloni. A Salvini: “Così finiamo alle tre”; poi tra sé: “Sto a morì”
È verissimo nella parte sulla storia nazionale e il fascismo, fondata su una affermazione oggettivamente falsa (“Non ho mai provato simpatia per il fascismo”, nella sua recente biografia aveva scritto con un sussulto di pudore: “Non ho mai avuto il culto del fascismo”) e proseguita con una summa di revisionismo. La presidente del Consiglio non cita il 25 aprile, passo indietro persino rispetto a Ignazio La Russa, fonda la Repubblica sul Risorgimento, la Resistenza non è degna di essere nominata, mette sullo stesso piano “i totalitarismi”, l’unica volta che cita l’antifascismo è per additarlo come assassino in quanto “antifascismo militante” (“Ragazzi innocenti venivano uccisi a colpi di chiave inglese”, riferimento al barbaro omicidio nel 1975 del giovane militante milanese di destra Sergio Ramelli, che almeno La Russa aveva affiancato all’assassinio senza colpevoli di due ragazzi di estrema sinistra, Fausto Tinelli e Iaio Iannucci), nessun riferimento alla coeva violenza nera e alle stragi di marca fascista. La ricostruzione è quella catacombale cara al neofascismo novecentesco: una comunità di perseguitati per il coraggio e l’ostinazione delle loro idee. Un adolescente che provasse a individuare i capisaldi della storia nazionale dal discorso di Meloni penserebbe che la Prima Repubblica, nata dal Risorgimento anti-austriaco nell’Ottocento, fosse fondata sull’apartheid di giovani e sinceri democratici. Meloni si supera quando descrive così il Movimento sociale italiano cui si iscrisse ragazzina: “Ho conosciuto giovanissima il profumo della libertà, l’ansia per la verità storica e il rigetto per qualsiasi forma di sopruso o discriminazione proprio militando nella destra democratica italiana”. L’ansia per la verità storica, ovvero, di una formazione la cui posizione ufficiale sul fascismo era “non rinnegare e non restaurare” (quella ufficiosa era peggio), il cui simbolo era – ed è in parte tuttora in Fratelli d’Italia – la fiamma che arde sulla bara di Benito Mussolini. Dura la condanna delle leggi razziali, “una vergogna che segnerà il nostro popolo per sempre”, vergogna che il Msi ammetteva già negli anni Sessanta, e sai che sforzo. Per il resto, su questo tema, Meloni ha ragione: non ha cambiato idea, avrebbe potuto dire le stesse cose dieci o venti anni fa.
Netta è invece la posizione, confermata, sul conflitto in Ucraina: “Sbaglia chi crede sia possibile barattare la libertà dell’Ucraina con la nostra tranquillità. Cedere al ricatto di Putin sull’energia non risolverebbe il problema”. Applausi da entrambi i fronti, ma nella Lega in molti restano a braccia conserte. Sulle donne lancia una sfida, garantendo che non toccherà la legge 194 sull’aborto e aggiunge: “Si è fatto un gran parlare sull’uso de “il” presidente o “la” presidente, ma io non ho mai pensato che la grandezza delle nostre battaglie si misurasse nel farsi chiamare “capatrena” e che fossero ben altri i temi su cui occorreva battersi. Ma sono punti di vista. Le donne italiane non hanno assolutamente nulla da temere da questo governo”.
Nel corso della giornata Meloni inciampa due volte, la prima in senso letterale, quando all’ingresso di Montecitorio le si incastra un tacco sul selciato, la seconda in aula, sempre durante la replica, quando si rivolge direttamente al deputato di Sinistra italiana Aboubakar Soumahoro, e prima ne sbaglia il nome, lui la corregge, poi gli dà del tu. Dopo le proteste dai banchi dell’opposizione Meloni si scusa. Ma Soumahoro non lascia correre: “Nel colonialismo i neri non avevano diritto al lei. Ma forse quando un underdog incontra un under-underdog viene naturale dare del tu”.
Governo, Meloni sbaglia il nome di Soumahoro. Lui la corregge dall’aula
Il finale è tolkeniano, autore di riferimento dei Gabbiani, la corrente-comunità del Msi-An di cui Meloni faceva parte negli anni ’90: “Allora noi siamo qui per ricucire le vele strappate, fissare le assi dello scafo e superare le onde che si infrangono su di noi”. Il fido deputato Federico Mollicone, Gabbiano pure lui, insiste: “Giorgia è come Frodo, il viaggio è cominciato”. Il neoministro della Cultura Gennaro Sangiuliano, scelto da Meloni, ha ricevuto consigli su come farlo durare: “Ho incontrato dei deputati Pd che mi hanno detto: se vuoi fare il ministro della Cultura dieci anni, studia la biografia di Franceschini”.