La marcia su Roma e quella fiamma ancora accesa

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Mai anniversario è stato più carico di valore politico, data anche la singolare coincidenza. Il 28 ottobre, centenario dell’avvento del fascismo, cade in un’Italia in cui è appena diventata premier una leader postfascista. È la prima volta nella storia repubblicana che un’erede della stirpe dei Giorgio Almirante e dei Pino Rauti, la testimone “di una lunga storia di chi non ha mai smesso di credere e combattere” (copyright Giorgia Meloni), occupa la poltrona più importante di Palazzo Chigi. Sarà l’occasione, l’anniversario della Marcia su Roma, perché la destra al governo faccia definitivamente i conti con le sue radici storiche, riconoscendo il ruolo essenziale dell’antifascismo e della Resistenza? O la neopresidente Meloni ritiene già esaurito il suo debito, dopo la condanna dei crimini dei totalitarismi novecenteschi nel discorso di insediamento? Siamo andati a chiederlo a intellettuali di ispirazione liberale che si riconoscono in una destra riformista e costituzionale, la stessa che ruppe con il neofascismo nella stagione dirompente di Gianfranco Fini. 

“Nel centenario della Marcia un capo di governo che viene dal postfascismo dovrebbe esprimere un giudizio definitivo sul regime”, dice Sofia Ventura, politologa bolognese che collaborò al laboratorio finiano di Farefuturo. “In parte l’ha già fatto ieri, nel suo discorso alla Camera, condannando tutti i totalitarismi. Ma resta una condanna superficiale, che non si articola in un’elaborazione critica sul ventennio: questo è il massimo a cui Meloni può spingersi per il suo vissuto esistenziale”. La studiosa separa il piano dell’opportunità politica da quello sentimentale. “Da politica accorta, la neopremier capisce immediatamente cosa serve. E si è già dimostrata disponibile a rapide metamorfosi: fino all’anno scorso paladina della Russia di Putin, oggi atlantista di ferro. Ma sul piano psicologico la conversione all’antifascismo sarebbe per lei una forzatura immane”. 

Per capire meglio i “limiti psicologici e cognitivi” di cui parla la professoressa Ventura bisogna sfogliare Io sono Giorgia, il bestseller di Rizzoli già presagio della vittoria elettorale. “Io non ho culto del fascismo”, scrive Meloni. “D’altra parte conosco ogni nome e ogni storia dei giovani sacrificati negli anni Settanta sull’altare dell’antifascismo. Questa violenza, culturale oltre che fisica, ha certamene generato in me una ferma ribellione nei confronti dell’antifascismo politico. Non lo nego affatto. Ma qui finisce il mio rapporto con il fascismo”. L’antifascismo – per la neopremier – non sono Gobetti, i fratelli Rosselli e gli oppositori di Mussolini uccisi o sbattuti in galera, non sono i condannati a morte della Resistenza, non sono i padri costituenti che diedero vita alla nuova Italia democratica, ma sono gli assassini di Ramelli e Di Nella.

Identico schema è stato riproposto ieri mattina alla Camera, quando Meloni ha usato una sola volta la parola “antifascismo”, ma in un’accezione negativa, accostata all’uccisione di ragazzi innocenti nella stagione di piombo. “Sul martirologio nero degli anni Settanta s’è fondata l’educazione sentimentale della sua generazione”, interviene Filippo Rossi, il più radicale degli innovatori nel think tank della destra nuova. “Ed è lo stesso sacrario evocato nel discorso di insediamento di La Russa al Senato. Il mondo è andato avanti, ma loro stanno fermi ancora là, a una vicenda di famiglia, all’immaginario di chi per quasi ottant’anni è vissuto ai margini della storia. E oggi finalmente diventa il padrone della politica”. Seppure negato, il fascismo resta come un collante psicologico più che un’ideologia consapevole. “È una sorta di richiamo tribale che provoca improvvidi automatismi come quello di La Russa che difende il ritratto di Mussolini al Mise”. Sono sempre loro, prosegue Rossi, “non si chiamano più camerati ma patrioti. E possono anche denunciare gli orrori dei totalitarismi, ma senza mai dichiararsi antifascisti”.

Nel lavacro di Fiuggi, quasi trent’anni fa, per la prima volta la destra postfascista di Fini affermava senza reticenza che “l’antifascismo era stato un momento storicamente essenziale per il ritorno dei valori democratici che il fascismo aveva conculcato”. Parole assai impegnative, “che la destra sembra aver dimenticato o non preso troppo sul serio”, scrivono Alessandro Campi e Sergio Rizzo in L’ombra lunga del fascismo. Perché l’Italia è ancora ferma a Mussolini (Solferino). “Giorgia Meloni è stata forse meno coraggiosa di Fini, anche perché più estranea sul piano famigliare alle vicende del Movimento Sociale nel dopoguerra”, dice ora al telefono Campi, lo studioso che animò il laboratorio intellettuale della destra dei diritti. “Ma sarà la sua nuova veste istituzionale a indurla a dire cose diverse da quelle che ha sempre pensato. Per Fini è stata l’occasione storica a spingerlo a rivedere le sue convinzioni”. Il centenario della Marcia su Roma può essere l’occasione per liberarsi definitivamente da una zavorra ingombrante? “Non credo che la neopremier abbia intenzione di ricordare l’anniversario. Nel suo discorso alla Camera ha già detto di non aver mai avuto simpatia per il regime. Ci potrebbero essere dentro il suo partito – questo sì – i saluti romani o le liturgie tipiche del fascismo da osteria. Al minimo accenno, Meloni ha il dovere di intervenire pesantemente sui dirigenti locali inclini a nostalgia. Non si può permettere cedimenti”. 

Nel suo primo discorso da premier, la leader di Fratelli d’Italia ha detto che la comunità politica da cui proviene ha già “storicizzato il Novecento”. Ma all’epoca della svolta – ha ricordato sulla Stampa Flavia Perina, direttrice del Secolo d’Italia dal 2000 al 2010 – il suo gruppo di Colle Oppio, che è poi lo stesso che oggi governa l’Italia, veleggiava in tutt’altra direzione, ostile alle pulsioni liberal e modernizzanti all’interno del movimento. E sarà sempre la compagnia di Colle Oppio, nel 2012, ad animare Fratelli d’Italia, raccogliendo il corpaccione nostalgico che vedeva in Gianfranco Fini “il traditore”. Da qui il ripristino della fiamma tricolore, disegnata nel 1946 da Giorgio Almirante, ex repubblichino già segretario di redazione della rivista antisemita La difesa della razza. Ma il riconoscimento delle leggi razziali come “massima vergogna nazionale” – ribadita ieri in Parlamento – non rende necessario lo spegnimento del simbolo fiammeggiante? “Se vuole liberarsi dal fantasma del neofascismo”, interviene Campi, “è un tema che prima o poi dovrà affrontare. È un simbolo che la inchioda al mondo dei reduci: tenerlo vivo non ha più senso”. 

Da Almirante a Fini, quella della fiamma è una storia dannata: chi ha provato a spegnerla è rimasto bruciato. Franco Cardini, insigne medievista, conosce bene il Movimento Sociale, avendoci militato da ragazzo. “I comizi si svolgevano tra saluti romani, gagliardetti e canzonette littorie. Anche in Fratelli d’Italia c’è ancora chi fa gli occhi dolci a Mussolini e non resiste ad alzare il braccio. Oggi si potrebbe chiedere responsabilmente a Giorgia Meloni: sei il presidente del Consiglio di una Repubblica antifascista? Allora devi sopprimere la fiamma tricolore, simbolo inequivocabile di un partito neofascista. Sarebbe un vero segnale di rottura”. Ma è una scelta che deve maturare all’interno del suo partito, chiosa il professore. 

Non fare i conti con il passato può avere effetti anche sul presente politico. Esiste un filo rosso che lega l’eredità irrisolta del fascismo con una destra reazionaria e antimoderna? “Per essere una destra radicale non devi essere necessariamente postfascista, ma certo può aiutare”, è la sintesi suggerita da Sofia Ventura. “La continuità tra le due esperienze si manifesta nell’interpretazione illiberale della storia. Non riconoscere in modo articolato che il fascismo è stato una pagina oscura della vicenda nazionale non solo perché ha prodotto degli orrori ma anche perché ha soffocato la libertà e la democrazia significa stare fuori dalla liberaldemocrazia: non possederne categorie, valori, principi. Una scelta di campo che si riflette in una visione della società chiusa, che non contempla le libertà individuali”.

Quella che Ventura imputa alla neopremier è una lettura organicistica della società, dove c’è la famiglia, c’è la comunità, ci sono i gruppi, ma mancano gli individui. Anche la scelta dei nomi di alcuni ministeri – più di tutti famiglia e natalità – non mostra l’intenzione di recidere il legame con le radici nere. “Nell’autobiografia Io sono Giorgia l’autrice mette in guardia i lettori a proposito della seconda guerra mondiale: non crediate che le democrazie occidentali abbiano combattuto il nazifascismo in nome della libertà e dell’eguaglianza perché erano razziste pure loro. Ma certo che l’Occidente era razzista, però non puoi confondere la segregazione pur terribile dei neri in Alabama con quel che accadde ad Auschwitz. Minimizzare l’afflato di libertà degli angloamericani vuol dire non aver fatto propri i valori liberali dell’antifascismo, quel patrimonio ideale su cui è stata ricostruita l’Europa dopo la tragedia del nazionalsocialismo. Alla Meloni tutto questo manca”. Anche la sua lettura della Shoah – condannata come orrore – rivela una visione assolutoria o quantomeno ingenua del fascismo, costellata di interrogativi sul genere: ma come è possibile che il regime abbia potuto perseguitare gli ebrei? “Domande da Vispa Teresa”, commenta Ventura, “che tradiscono un’interpretazione comune a molti italiani: Mussolini ha fatto tante cose buone finché s’è imbattuto nella ferocia di Hitler facendosene contagiare”. 

La violenza fascista è stato uno dei rimossi della società contemporanea, perché assolvendo il fascismo gli italiani hanno assolto un po’ anche sé stessi. E invece tutta la storiografia aggiornata dimostra come quello della violenza sia un mito identitario che resiste integro nei vent’anni di dittatura, architrave dell’impianto totalitario fondato sull’eliminazione del nemico.

Ci sorprenderà la neopresidente Meloni con parole definitive su fascismo, antifascismo e Resistenza, parole che ieri alla Camera sono mancate? Le premesse non sono incoraggianti, ma il centenario della Marcia su Roma potrebbe essere un’occasione da non perdere. 

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