Carlo Cracco: “Il merito è importante, ma non è l’unica caratteristica da coltivare”

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Qual è il motivo per cui fai questo mestiere? Questa la prima domanda, apparentemente semplice ma decisamente no data la ritrosia personale del personaggio che la riceve. A porla Andrea Malaguti, vicedirettore de la Stampa e a riceverla Carlo Cracco, chef che non è necessario presentare, tra gli ospiti di C’è Più Gusto a Bologna. “Ho scelto l’alberghiero perché era lontano da casa e si vedevano le montagne. Mi sembrava carino. Le idee erano tante, volevo fare il pasticcere, poi il cuoco”. 

“La scuola alberghiera soprattutto all’epoca era frequentata o da lazzaroni, chi non trovava posto altrove, o da chi era del mestiere da generazioni. Il fatto di entrare in cucina il primo anno, io che non ero nemmeno mai stato al ristorante, si faceva fatica: le cucine erano piccole, si stava dentro in 80. Io non ero mai stato velocissimo, lo ammetto, e sono consapevole di averci messo più degli altri”. Un racconto intimo, con una voce delicata, molto diversa da chi è abituato a vederlo in televisione. Un cenno importante al ruolo che ha avuto il padre: “Quando un mio professore non capiva molto se c’ero o meno, perché ero sempre distratto e facevo tante domande, mio padre consultandosi con la scuola, mi ha mandato a lavorare in un ristorante serio. Questo è un lavoro pratico, non c’è niente da fare. Non lo puoi imparare a livello teorico, devi imparare a capire i ritmi, a scandirli, a carpire concentrazione”. Pochi mesi bastarono, solo quattro, “per creare un’altra persona”. 

Merito, l’argomento dell’anno. Quanto conta, in generale e soprattutto dentro una cucina? “Il merito non è che sia a prescindere, va coltivato. Se ti educano a studiare, ad applicarti e hai un obiettivo, cerchi di raggiungerlo. Per cui il merito è sicuramente una dote e in quanto tale andrebbe sicuramente coltivata, ma non è l’unica”. Parole dirette, ancor più per la pacatezza con cui vengono dette e per la solita estraneità alle questioni politiche del patron di Cracco in Galleria. “Ci sono molte altre cose da coltivare, io 8 come voto a scuola lo avevo solo in quello che mi interessava. Bisogna incentivare la comprensione, l’attenzione dei ragazzi”. 

Come scegli i cuochi da mettere i tuoi ristoranti? “Il colloquio a me serve solamente per capire la cultura e l’atteggiamento personale di una persona. Sono preamboli per una persona da inserire all’interno della brigata. Sono i ragazzi che scelgono poi di lavorare con te e bisogna tirarne fuori le maggiori caratteristiche possibili”. Essere un maestro quindi, ma che rapporto aveva Carlo Cracco con il suo maestro, Gualtiero Marchesi e come c’è arrivato? ” Finita la scuola sono tornato al ristorante del famoso tirocinio imposto da mio padre, mi ero affezionato a quel posto e torno in maniera fissa, più strutturata”. Il primo impatto, l’aiuto della sorella e poi una consapevolezza che cresce: “Soprattutto nel valutare che al di fuori di quelle mura c’era un mondo di ristoranti tutti diversi, e dovevo capire quale fosse il migliore per me, il più adatto. Fu mia sorella che mi indirizzò a quello che le sembrava più innovativo, ovvero il ristorante di Marchesi, che ho conosciuto prima a scuola e poi dopo un anno di lavoro sono riuscito ad agganciarlo e a entrare in brigata”. Un’ammissione candida: “Prima di iniziare a lavorare da lui sono andato a cena come cliente, perché non ne capivo niente di quello che faceva”. Tra gli insegnamenti fondamentali “la sua capacità di togliere il grasso e le strutture e rinnovare la cucina italiana prendendo un po’ da ogni regione italiana. Per me è stato come cominciare da capo, cancellando o quasi tutto quello che avevo imparato a scuola. Questo è stato fondamentale per me, perché dover imparare di nuovo è un grande esercizio” e una grande opportunità.  

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Ma quali sono le differenze tra Francia e Italia? “Sostanziale. Noi abbiamo la convinzione che l’alta cucina per chi se lo può permettere, per loro no, è una parte fondamentale della società. Per questo i premi arrivano a chi riesce a portare avanti la cucina, che è l’ultimo anello di un meccanismo economico complesso che per lo Stato francese è fondamentale, da aiutare e coltivare. Ti scontri con una corazzata enorme, perché lì tutto è impostato per la formazione, il riconoscimento e il merito. Tutto è incentrato sull’eccellenza, ma che non vuole dire difficoltà di accesso, ma un modello da seguire. Perfettibile, sicuramente, ma che consente e premia chi ce la mette tutta. Quella è la cosa più bella”. E anche sulla Sovranità Alimentare, in quanto ministero, “siamo arrivati secondi, lì ce l’hanno già da circa dieci anni. Ma va bene così, l’importante è che si facciano grandi cose. Che è quello che speriamo”. 

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“Dove sceglierei di andare a mangiare? Ovunque. Da piccolino mio papà ci portava spesso il weekend in viaggio, lungo le varie regioni italiane. Per me il viaggio è rimasto fondamentale e soprattutto è l’unico vero fulcro creativo del mio lavoro: senza il viaggio, senza la contaminazione, non c’è il resto. C’è una cucina migliore e una peggiore? Si, ma non esistono assoluti”, bensì la valutazione di ogni singola cucina, che sia la trattoria qui in Piazza Maggiore a Bologna, o il miglior ristorante di Copenaghen”.  

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