L’editore Giuseppe Laterza: “Sinistra, per rinascere devi aprirti all’esterno”

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Le idee degli economisti e dei filosofi politici, così quelle giuste come quelle sbagliate, sono più potenti di quanto comunemente si ritenga. In realtà il mondo è governato da poche cose all’infuori di quelle. Gli uomini della pratica, i quali si credono affatto liberi da ogni influenza intellettuale, sono spesso gli schiavi di qualche economista defunto. Sono sicuro che il potere degli interessi costituiti è assai esagerato, in confronto con l’affermazione progressiva delle idee».

Questa frase – con cui John Maynard Keynes conclude la sua Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta – mi torna in mente a volte quando sento qualche politico definirsi “pragmatico”. Magari ritenendo che l’unico potere reale sia quello degli interessi costituiti, a cui di conseguenza è disposto a concedere rendite inefficienti e costose.

In politica oggi le idee sembrano contare poco e poi, a perseguirle con troppa coerenza, si rischia di passare per “ideologici”, bloccati da camicie di forza mentali. In tal modo si finisce per apprezzare solo le “competenze”, cioè le conoscenze volte a risolvere problemi concreti e immediati. Nella discussione pubblica parole come “libertà”, “uguaglianza”, “solidarietà”, “dignità” sono usate frequentemente ma in maniera generica e rituale, forse nella errata convinzione che vogliano dire per tutti la stessa cosa. Non è un caso se da tempo agli intellettuali i politici preferiscano gli spin doctor, capaci di elaborare efficaci strategie comunicative. I “partiti personali” – come li definì per primo Mauro Calise – non hanno bisogno degli intellettuali, visto che si affidano più al carisma del leader che a idee forti.

Eppure, come scriveva Keynes, sono ancora le idee a muovere il mondo. Una idea che ha cambiato lo scenario politico occidentale degli ultimi anni, e che non a caso è al centro del libro di Giorgia Meloni, è che la globalizzazione neoliberista (abbracciata a suo giudizio dalla sinistra orfana del comunismo) rischia di cancellare la nostra identità. Contro questa minaccia, che si esprime ad esempio nell’immigrazione incontrollata, i sovranisti difendono la comunità, in particolare quella basata su patria, famiglia e fede religiosa.

Zygmunt Bauman nel suo ultimo libro ha definito questa visione del mondo «retrotopia», cioè utopia del passato. Per Bauman la comunità è certamente un ingrediente essenziale per ridurre l’insicurezza generata dalla «modernità liquida». Ma è illusorio pensare di tornare indietro, riproponendo le comunità tradizionali: piuttosto si possono costruire comunità basate su un progetto e aperte a tutti coloro che lo condividono. Un tempo anche i partiti e i sindacati erano comunità di questo tipo. E oggi lo sono molte associazioni che operano nel terzo settore, ad esempio nell’assistenza ai più deboli.

Comunità di progetto possono essere i giornali, i blog, le riviste, le case editrici. Ma possono esserlo anche le imprese e le istituzioni pubbliche come la scuola e l’università, un ospedale o un centro di ricerca. Luoghi di incontro e di elaborazione di idee nuove – anche sulla base dell’esperienza – sui temi essenziali del nostro futuro: dal welfare all’integrazione degli immigrati, dal buon uso delle tecnologie al migliore governo dei mercati (Esther Duflo ne fa un’ampia rassegna nel suo libro Una buona economia per tempi difficili). Idee che potrebbero costituire la base culturale di una sinistra nuova, capace di una visione diversa sia dal neoliberismo declinante sia dal sovranismo montante. Ma perché questo avvenga occorre che i partiti tornino ad essere luoghi di discussione sul futuro. E vanno moltiplicate le occasioni di confronto tra le forze politiche e le componenti della società civile che operano concretamente per realizzare un mondo più giusto (ma anche più efficiente e con meno sprechi) a partire dalla battaglia contro il cambiamento climatico.

Si tratta di una “utopia sostenibile”, come recita il titolo di un libro di Enrico Giovannini. Perché le utopie sono certo, per definizione, luoghi impossibili. Ma possono descrivere aspirazioni collettive, indicare una direzione di marcia. Eduardo Galeano una volta scrisse che l’utopia è come l’orizzonte: «Mi avvicino di due passi, lei si allontana di due passi. Cammino per dieci passi e l’orizzonte si sposta di dieci passi più in là. Per quanto io cammini, non la raggiungerò mai. A cosa serve l’utopia? Serve proprio a questo: a camminare».

Per ricostruire l’orizzonte occorre tornare a discutere di quale società vogliamo e di come realizzarla. Senza aspettarsi improbabili palingenesi ma nella consapevolezza che con le nostre idee abbiamo cambiato e possiamo ancora cambiare la nostra storia.

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