Dalla nascita della seconda Repubblica nel 1994 il dibattito sull’identità della sinistra non si è mai chiuso, anzi si è riaperto a ogni tappa negativa del suo percorso politico. Adesso, naturalmente, ritorna di stringente attualità, anche se dopo trent’anni sarebbe opportuno chiedersi quale sia l’origine del termine sinistra, nato dal rifiuto degli ex comunisti di chiamarsi socialisti dopo la dissoluzione del Pci e dell’Urss, crollati sotto il muro di Berlino nel 1989.
Scartato il nome di Rifondazione comunista che si erano attribuiti gli scissionisti di Cossutta e Ingrao, nel 1991 Occhetto sceglieva di intitolare il nuovo soggetto politico Partito Democratico della Sinistra. Non bastava però l’aggettivo “democratico” a imprimere al sostantivo “sinistra” un significato identitario in grado di esprimere una visione e una strategia per il futuro. Lo hanno dimostrato gli anni successivi quando il Pds si è proposto solo come polo di aggregazione di altri soggetti politici, tutti reduci dai partiti della prima Repubblica, ciascuno ancora alla ricerca di un sé – come appunto gli stessi ex comunisti.
Gruppi di cattolici sociali, di liberali cattolici e persino rifondatori comunisti entravano nelle coalizioni “di sinistra” Ulivo e Unione, per poi confluire nel Partito Democratico, che proprio gli ex democristiani sono riusciti a conquistare dopo aver messo fuori gioco i dirigenti del vecchio Pci, primo D’Alema, poi Veltroni e infine Bersani.
Logico dunque che questa “Sinistra” dalle tante ibridazioni, tutte nate nei palazzi della politica, non riuscisse a esprimere un vero partito attrattivo per la massa dei cittadini, da molto tempo orfani della politica. Dalla crisi della rappresentanza si deve infatti partire, se si considera che i partiti sono fondamento irrinunciabile della democrazia, come ha sostenuto Sartori e come dimostra la storia degli Stati democratici europei, perché alla crescita dei partiti socialisti e laburisti ha sempre corrisposto la crescita degli Stati democratici.
È stato così anche per lo sviluppo democratico in Italia a partire dalla fine del XIX secolo e del XX; uno sviluppo progressivo, interrotto per lunghi vent’anni dalla dittatura fascista che, non a caso, per affermarsi al potere ha dovuto preventivamente distruggere il partito socialista e le sue organizzazioni.
Ritornare alle origini del socialismo, pur nell’irripetibile contesto storico nel quale si è sviluppato, può indicare però la direzione per uscire dalla palude di una sinistra priva di significato.
I valori espressi dal socialismo di ieri, ridisegnati sulla intramontabile bandiera della rivoluzione americana e di quella francese – libertà, fraternità, uguaglianza – restano ancora il faro orientativo del socialismo oggi, naturalmente nei significati nuovi che le trasformazioni del mondo hanno imposto in un percorso lungo due secoli di storia. È però proprio sulla consapevolezza di queste trasformazioni che va fissata la nuova identità socialista.
Alla fine dell’Ottocento il movimento e poi il partito socialista si erano confrontati con la nascita della società di massa originata dalla rivoluzione industriale. Ai bisogni e alle aspettative del proletariato avevano cercato di dare risposte, facendo un’opera di proselitismo e di educazione che puntava all’inclusione di ogni strato della popolazione: gli alfabeti e gli analfabeti, gli operai, i contadini, i ceti medi e piccoli, non tutti allo stesso livello di sviluppo e di consapevolezza di sé. Riunirli nei grandi contenitori collettivi dei partiti e dei sindacati era stata una risposta armonica alla stessa struttura dell’economia nel pieno dell’industrializzazione di cui motori erano le fabbriche con migliaia di manovali e di tecnici.
Oggi questa società organizzata per grandi comparti collettivi è scomparsa. La società nata dalla rivoluzione tecnologica appare assai più frammentata del passato e più difficile da organizzare e da governare. Si tratta, a mio avviso, di un ostacolo che appare tanto più insuperabile se non ci si libera dai parametri di lettura novecenteschi con i quali si cerca invano di interpretare la realtà del presente.
Vale naturalmente per i più anziani, allevati nella cultura del Novecento, ma vale anche per i dirigenti politici più giovani che mostrano uno spirito di conservazione incompatibile con il socialismo da sempre innovatore e proiettato nel futuro. Troppo a lungo il Pds, i Ds e lo stesso Pd hanno vissuto sulla rendita organizzativa del vecchio Pci e del “buon governo” nelle regioni rosse (sempre più ristrette territorialmente), guidate da amministratori locali cresciuti sull’eredità dei padri comunisti e socialisti.
Adesso l’identità va trovata invece su quanto di nuovo si muove nonostante tutto nel paese, il più lontano possibile, però, dai palazzi romani dove spontaneamente inizia a riunirsi e a organizzarsi fuori dai recinti partitici la società dei duemila, a cominciare dai settori più sensibili.
Il dibattito su RepubblicaSono intervenuti: Michele Serra, Francesco Piccolo, Stefano Massini, Massimo Recalcati, Chiara Saraceno, Emanuele Trevi (intervistato da Raffaella De Santis), Isaia Sales, Luciano Violante, Chiara Valerio, Gianni Riotta, Nichi Vendola, Luigi Manconi, Dario Olivero, Giacomo Papi, Daniela Hamaui, Michela Marzano, Linda Laura Sabbadini, François Hollande (intervistato da Anais Ginori), Carlo Galli, Emanuele Felice (intervistato da Eugenio Occorsio), Natalia Aspesi, Javier Cercas (intervistato da Alessandro Oppes), Roberto Esposito, Gianni Cuperlo, Bruno Simili (intervistato da Eleonora Capelli), Giorgio Tonini, Franco Lorenzoni, Pietro Ichino, Paolo Di Paolo, Serenella Iovino, Giovanni Cominelli, Luigi Zanda, Michele Salvati, Giuseppe Laterza, Enrico Letta, Stefano Boeri, Anna Foa, Antonio Bassolino (intervistato da Conchita Sannino)