“Vorrei che tutto il mondo fosse l’Europa”. Così mi diceva un giovane pachistano, in Italia da oltre dieci anni, mentre raccontava di come fosse stato indispensabile per lui fuggire dalla mancanza di libertà di movimento, dalla carenza di opportunità per la sua famiglia, dalla corruzione pubblica. Verrebbe da pensare che la globalizzazione non sia stata solo disastri ambientali e morali ma che abbia anche rappresentato una speranza di uscire da comunità chiuse, incapaci di lasciar respirare diritti e doveri insieme. Nel processo di ricostruzione, costituente della sinistra bisogna profondamente analizzare i rapporti con la globalizzazione e l’individualismo, che hanno caratterizzato culturalmente gli ultimi quarant’anni.
Bisogna farsi le domande giuste. È necessaria una conversione culturale della sinistra? Un processo di conversione culturale la destra lo ha iniziato molti anni fa passando da una proposta liberista e fideistica nei confronti del mercato ad una critica feroce dei processi che infragiliscono lo Stato nazionale. La declinazione di questa rivoluzione della destra con parole e posture populiste non la rende meno vera.
La virata culturale della sinistra pure è avvenuta ma in direzione di una maggiore fiducia nell’economia, nella finanza, nella libertà di iniziativa economica. E in un maggiore impegno sui diritti individuali. La nuova sinistra riformista viene così identificata come l’attore simbolico di questa alleanza tra mercato e valori della modernità e dunque diviene gioco facile per il populismo indicare essa come responsabile dello scivolamento verso minori protezioni sociali. I ceti popolari si sono sentiti traditi dalla sinistra semplicemente perché non sono stati difesi dai meccanismi distorti del mercato. Oggi è dunque necessaria una seconda conversione culturale. Il partito può discutere di questo?
Ciò che non vediamo o facciamo finta di non vedere è che siamo tutti dominati da una unica cultura ideologica che ha trasformato l‘homo sapiens in homo oeconomicus, individualista, competitivo, consumatore compulsivo, cliente di tutto, che è insieme cliente ideale del mercato capitalista e suddito perfetto dell’assistenza statale. La grande attenzione alla dimensione tecnica-operativa degli strumenti ha messo in ombra la questione cruciale, politica, della discussione sui fondamenti ideologici che hanno determinato questo modello di sviluppo. Il partito può discutere di questo?
Le tante crisi esplose, dalla pandemia alla guerra, danno una occasione unica di conversione culturale se affrontate con analisi veritiere e a volte dolorose. Per esempio riconoscendo che la giusta affermazione della persona singola ha storicamente virato da soggettività positiva a individualismo possessivo, nel senso di una libertà da qualsiasi legame non economico con gli altri.
Da sempre possiamo scegliere di affrontare le sfide da soli o unendoci agli altri. Spesso trascuriamo questa opzione dimenticando che siamo più deboli rispetto a molte altre specie sulla Terra e che il nostro potere si è accresciuto grazie alla nostra capacità di cooperare meglio degli altri esseri viventi.
Cooperare e fare comunità è scritto nei nostri geni. Dobbiamo virare decisamente verso una visione comunitaria. Nelle crisi che siano sanitarie o sociali è emerso con evidenza che la famiglia, prima comunità, è il nucleo che regge l’intera struttura sociale e non un residuo del passato. Abbiamo il coraggio, da sinistra, senza familismi anacronistici, di investire di più sulle famiglie per proteggere la nostra comunità civile?
Il primo compito delle comunità era storicamente quello di proteggere le fragilità integrandole nella normale vita quotidiana; nel tempo dell’individualismo la soluzione è quella dell’isolamento. Non c’è spazio per chi non è produttivo. “Una società che discrimina in base all’efficienza non è meno disumana di una società che discrimina in base al sesso, alla religione, all’etnia” (Giovanni Paolo II, 2004). Si può parlare di un nuovo welfare e di sanità territoriale senza mettere in discussione questa cultura?
Abbiamo bisogno di un paradigma alternativo sul modello complessivo di sviluppo, una ecologia integrale, capace di recuperare la dimensione umana e comunitaria della vita. Bisogna collegarsi con le tante esperienze che già si muovono in questa direzione e offrire una speranza a chi sogna un progresso più umano.
Non si tratta solo di formulare una nuova agenda di politiche e azioni quanto piuttosto di costruire una nuova prospettiva culturale affermativa e generativa che espliciti le nostre priorità valoriali. Per ripartire servono un nuovo sogno e, forse, una nuova ideologia mite e solida.
Il dibattito sulle nostre pagine – Sono intervenuti: Michele Serra, Francesco Piccolo, Stefano Massini, Massimo Recalcati, Chiara Saraceno, Emanuele Trevi (intervistato da Raffaella De Santis), Isaia Sales, Luciano Violante, Chiara Valerio, Gianni Riotta, Nichi Vendola, Luigi Manconi, Dario Olivero, Giacomo Papi, Daniela Hamaui, Michela Marzano, Linda Laura Sabbadini, François Hollande (intervistato da Anais Ginori), Carlo Galli, Emanuele Felice (intervistato da Eugenio Occorsio), Natalia Aspesi, Javier Cercas (intervistato da Alessandro Oppes), Roberto Esposito, Gianni Cuperlo, Bruno Simili (intervistato da Eleonora Capelli), Giorgio Tonini, Franco Lorenzoni, Pietro Ichino, Paolo Di Paolo, Serenella Iovino, Giovanni Cominelli, Luigi Zanda, Michele Salvati, Giuseppe Laterza, Enrico Letta, Stefano Boeri, Anna Foa, Antonio Bassolino (intervistato da Conchita Sannino), Simona Colarizi, Giancarlo Bosetti, Nicola Zingaretti, Andrea Romano, Marc Lazar, Pina Picierno, Andrea Graziosi.