Lula ha vinto le elezioni, ma in Brasile. Sembrerebbe una ovvietà questa affermazione ma leggendo i giornali e seguendo i social nei giorni scorsi si avvertiva come una ventata di illusorio ottimismo per ciò che stava accadendo dall’altra parte dell’oceano. Qui da noi si cerca affannosamente un “Lula” capace di riportare la sinistra al governo. Ma Lula viene dalle lotte per il lavoro e per l’eguaglianza in un paese che ha immensi problemi sociali, Lula è un “figlio del popolo”.
Qui da noi i dirigenti della sinistra sono figli delle dinamiche di partito e, soprattutto, profumano di borghesia urbana e intellettuale. L’abisso che separa i rappresentanti della sinistra italiana dal loro popolo si è rivelato incolmabile e non da oggi. Infatti l’ideologia più forte che caratterizza la classe dirigente della sinistra istituzionale è una paradossale forma di estremismo governista.
Non è un caso che Giorgia Meloni giochi la partita della comunicazione su questo tasto: lei è il popolo, non come quelli di sinistra che sono borghesi, fighetti o radical-chic. Chiaramente questa falsa retorica tende a disegnare una sorta di imbattibilità della destra e gli sconfitti di centrosinistra sono frastornati, ritenendo “ingiusta” la punizione inflitta loro dagli elettori, vivendo una paralisi pressoché totale. A dire il vero SI e Verdi hanno azzeccato una mossa non di poco conto con alcune candidature, infatti personalmente io mi sono sentito di fare un pubblico endorsement per Soumahoro e Ilaria Cucchi, perché come elettore di sinistra ho sperato che in Parlamento almeno loro potessero rappresentare istanze fondamentali: diritti del lavoro; diritti civili e nuove cittadinanze. In politica la biografia conta, avere la credibilità di chi ha combattuto battaglie è determinante per ricostruire l’identità della sinistra. È di questo che si tratta, ricostruire una identità chiara sulla base di un chiaro percorso di idee e battaglie fondamentali.
La classe dirigente che nell’ultimo decennio ha avuto le redini dei partiti che oggi sono all’opposizione, non rappresenta alcuna di queste istanze, rappresenta una linea ossessivamente governista, quindi legata alla gestione del potere, più o meno incapace di empatia con larghi strati della popolazione. Non basta avere bravi o bravissimi amministratori. Non sarà facile opporsi ad un governo come quello attuale per questi dirigenti politici, perché l’abitudine a gestire il potere li ha resi inadatti a sporcarsi le mani nella società. Invece c’è un immenso spazio sociale nel quale gettarsi per recuperare la credibilità perduta.
Ma cosa si può fare? Il “governismo estremo” ha da una parte allontanato le classi popolari dai partiti della sinistra istituzionale, che sono apparsi come partiti-Stato, sordi alle istanze sociali e popolari e dall’altra ha isolato settori sociali potenzialmente attivi sul terreno dei diritti sociali e civili, che si sono quindi rifugiati in nicchie di dissenso che non comunicano nemmeno tra loro.
Per la cosiddetta “sinistra diffusa” credo che la prima cosa da fare sia essere dentro un percorso di opposizione sociale ad un governo che ha già annunciato misure impopolari, non praticare solo la pur necessaria opposizione parlamentare. Quelle sulla sanità, quelle sulla riduzione del reddito di cittadinanza, o quelle che comprimeranno il diritto all’aborto e sposteranno denaro pubblico verso le scuole private, le leggi che restringono le libertà come quella sua rave, per non parlare di ciò che bolle in pentola per azioni contro l’ambiente, sono tutte misure impopolari. Poi la ferocia contro gli immigrati non darei per scontato che sia bene accetta da una larga fetta della popolazione. Un enorme spazio di manovra per fare politica, se si vuole.
Ma per praticare l’opposizione sociale bisogna essere nei conflitti della società e non “andare verso” la società con magnanima condiscendenza. Una volta si chiamava senza giri di parole “conflitto sociale”, che non è una bestemmia, è il luogo dove si forma la coscienza collettiva e non può essere scambiato né per un paludato seminario di educazione civica e nemmeno per una orda selvaggia e violenta contro le sacre istituzioni. È dalla negazione del conflitto che nasce il giochino che getta in bocca alla destra o al “populismo” di turno la società intera con le sue rabbie e le sue frustrazioni.
La partecipazione è un luogo nel quale si smette di voler somigliare agli altri o convincere gli altri, dove invece si diventa gli altri. È solo dentro questa dinamica che potranno emergere nuovi dirigenti politici, che sono espressione dei movimenti e dell’azione sociale, è una pia illusione che si possano tirare fuori conigli dal cappello buoni per ogni stagione, a meno che non ci si illuda di vivere in una eterna stucchevole mezza stagione. Ma, caro mio, non esistono più le mezze stagioni, almeno per la sinistra.
Il dibattito su RepubblicaSono intervenuti: Michele Serra, Francesco Piccolo, Stefano Massini, Massimo Recalcati, Chiara Saraceno, Emanuele Trevi (intervistato da Raffaella De Santis), Isaia Sales, Luciano Violante, Chiara Valerio, Gianni Riotta, Nichi Vendola, Luigi Manconi, Dario Olivero, Giacomo Papi, Daniela Hamaui, Michela Marzano, Linda Laura Sabbadini, François Hollande (intervistato da Anais Ginori), Carlo Galli, Emanuele Felice (intervistato da Eugenio Occorsio), Natalia Aspesi, Javier Cercas (intervistato da Alessandro Oppes), Roberto Esposito, Gianni Cuperlo, Bruno Simili (intervistato da Eleonora Capelli), Giorgio Tonini, Franco Lorenzoni, Pietro Ichino, Paolo Di Paolo, Serenella Iovino, Giovanni Cominelli, Luigi Zanda, Michele Salvati, Giuseppe Laterza, Enrico Letta, Stefano Boeri, Anna Foa, Antonio Bassolino (intervistato da Conchita Sannino), Simona Colarizi, Giancarlo Bosetti, Nicola Zingaretti, Andrea Romano, Marc Lazar, Pina Picierno, Andrea Graziosi, Graziano Delrio