Pietro Ichino: rischiamo di tornare al Pds, recuperiamo invece le cinque ragioni del progetto dem

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Quindici anni fa il Pd è nato, per iniziativa di Walter Veltroni sostenuta da Romano Prodi, con l’obiettivo di voltare pagina rispetto a cinque contrapposizioni novecentesche:   – quella fra riformisti e rivoluzionari: il Pd nasceva invece dall’idea condivisa dagli eredi degli uni e degli altri secondo cui nel nuovo secolo l’iniziativa politica per la costruzione di una società più giusta dovesse collocarsi senza riserve all’interno del modello delle società occidentali liberal-democratiche;   –  quella tra cattolici progressisti e sinistra laica: sul terreno del governo della res publica nessuno ha verità rivelate da far valere, né vi è alcun impedimento a che i patrimoni ideali degli uni e quelli degli altri si fondano in un grande patrimonio comune definibile nei termini di una “cultura moderna dei diritti civili”;   – quella fondata sull’antagonismo fra operai e imprenditori: gli uni e gli altri condividono invece un interesse comune alla prosperità dell’impresa, per la quale sono indispensabili tanto il ruolo dell’imprenditore, quanto la partecipazione di tutti i dipendenti alla scommessa comune sull’innovazione e alla divisione equa dei frutti;   – quella fra Stato e mercato: mentre per un verso lo Stato non è in grado di sostituirsi all’imprenditore nella sua funzione economica imprescindibile, per altro verso il libero mercato non esiste in rerum natura, ma è il frutto di un ordinamento molto sofisticato, che presuppone un insieme di regole incisive e un’amministrazione pubblica efficiente, capace di applicarle con rigore e di intervenire efficacemente a correggere gli effetti delle market failures;   – quella fra liberismo e socialismo: il progetto politico del Pd è sempre stato invece quello di una società aperta ispirata al principio della contendibilità di tutte le funzioni e i ruoli, che implica al tempo stesso la garanzia delle pari opportunità per tutte le persone (da costruirsi principalmente con la scuola e la formazione) e la vigilanza costante contro ogni rischio del riprodursi di privilegi castali, siano essi ambientati nell’amministrazione pubblica o nella società civile, nella grande impresa, nelle corporazioni di mestiere, nelle istituzioni culturali.

La composizione delle liste elettorali con cui il Pd si presentò alle elezioni politiche del 2008 rappresentava plasticamente il superamento di queste contrapposizioni e la sintesi progressista che il nuovo partito intendeva perseguire. Senonché, come mi sono proposto di mostrare in un saggio pubblicato nell’ottobre scorso, fin dall’inizio della XVI legislatura fu subito chiara nel partito la perdurante esistenza di un’anima politica che aveva digerito soltanto il superamento delle prime due contrapposizioni, ma non delle altre tre: chiamiamola “l’anima dei nostalgici del Pds”, ovvero del partito che era nato dopo il congresso della Bolognina dalle ceneri del Pci. Quel che è peggio, apparve con evidenza la grande difficoltà di un dialogo fra queste due anime del Pd: invece di cercare la sintesi, nel corso della XVI legislatura esse si sono guardate in cagnesco, limitandosi ciascuna ad aspettare l’occasione buona per “fare le scarpe” all’altra: con la crisi dell’autunno 2011 e il governo Monti ha prevalso di fatto l’anima veltroniana, con le primarie del 2012 ha prevalso quella dei nostalgici del Pds, rappresentata da Pierluigi Bersani. Nel corso della XVII legislatura la contesa tra le due anime si è riprodotta, con l’elezione nel 2013 di Renzi al vertice del partito e la scissione a sinistra di Pierluigi Bersani, Massimo D’Alema e Stefano Fassina, ma al tempo stesso con il permanere all’interno del Pd di un’ala sinistra, rappresentata ora da Cesare Damiano e Andrea Orlando, che rinnegava pressoché totalmente non soltanto l’operato del governo Monti in materia di pensioni e lavoro, ma anche l’operato su questo terreno del governo Renzi, bollato come “di destra”.

Nel corso della XVIII legislatura il confronto interno è stato più confuso e si è risolto in una sorta di lottizzazione delle politiche del partito: sul terreno della politica europea e della politica estera saldo ancoraggio alle scelte europeistica e atlantica; sul terreno della politica economica, sociale e del lavoro, ritorno allo statalismo, alla svalutazione delle politiche attive del lavoro e al prevalere delle politiche passive, alla concentrazione della spesa sociale sull’anticipazione dell’età del pensionamento, cioè al ritorno indietro rispetto alla riforma Fornero, e dunque a un convinto collateralismo con la Cgil.

Ora, all’inizio della XIX legislatura, anche quell’equilibrio precario fondato su di una contraddittoria lottizzazione delle politiche estera ed economica interna si è rotto; l’ala sinistra non solo ha preso il sopravvento nel governo del Pd, ma si propone di modificarne la costituzione in modo da emendarla dei contenuti originari, almeno per quei tre quinti che essa non ha mai digerito, col risultato di escludere di fatto chi quei contenuti considera ancora essenziali. Ma anche col risultato di svuotare di ogni significato l’incipiente congresso del partito: che senso ha la scelta come nuovo segretario – poniamo – di un Bonaccini piuttosto che di una Schlein, se la scelta di fondo di rinnegare gran parte dell’ispirazione originaria del partito è stata imposta nel suo nuovo dna con la scelta compiuta dai “costituenti”?

Ho aderito (pur non avendo potuto partecipare alla sua redazione) al “manifesto laburista” di un gruppo di iscritti al partito che si oppone al ritorno all’assetto del Pds dei primi anni ’90, con l’intento di contribuire a evitare questa grave involuzione. L’ho fatto nonostante qualche perplessità sul titolo che si è voluto dare a questo manifesto: vada per il termine “laburista”, ma solo a patto che con esso non si intenda richiamare l’esperienza di un partito essenzialmente caratterizzato dal legame a doppio filo con un sindacato di lavoratori dipendenti. Il “lavoro” da difendere e promuovere ricomprende ogni attività umana riconducibile alla nozione delineata dagli articoli 4 e 35 della Costituzione, dipendente o autonoma, ivi compresa quella degli imprenditori.

Detto questo, nutro pur sempre la speranza che la parte del Pd ancora convinta della bontà della sua ispirazione originaria sappia rialzare la testa e opporsi efficacemente all’involuzione incipiente. Ma una cosa è certa: cioè che il vero atto di rinascita del Pd può essere costituito non solo da un reciproco riconoscimento del pieno diritto di cittadinanza di ciascuna delle due parti nella casa comune, ma anche e soprattutto dall’apertura di un dialogo vero tra di esse, che, a ben vedere, ancora non c’è mai stato.

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