Per essere europea, la sinistra riparta da un nuovo capitalismo

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La discussione che si è aperta nelle ultime settimane intorno al Congresso del PD e ai lavori del Comitato Costituente necessita di due importanti chiarimenti.Primo, perché il Congresso sia davvero un momento “costituente per il nuovo Partito democratico” – come scritto in grande evidenza sul sito internet del PD – è necessario che l’elaborazione congressuale sia collocata all’interno del processo di trasformazione delle socialdemocrazie europee degli ultimi anni. Solo in questo modo infatti si potrà affrontare una riflessione strutturale, che appare quantomai necessaria dopo i due peggiori risultati di sempre (2018 e 2022) del principale partito della sinistra alle elezioni politiche, e non un mero momento di sostituzione dell’ennesimo segretario senza alcun cambiamento sostanziale.

Secondo, per evitare la tanta confusione che si è alzata dopo la proposta di modifica del manifesto del PD, in particolare sul ruolo della sinistra verso la regolazione di mercato, va chiarito subito che le socialdemocrazie non rifiutano certo il capitalismo, ma intendono regolarlo per contrastare eccessive disuguaglianze e garantire diritti a tutti i cittadini: compito del manifesto valoriale del PD dovrebbe essere dunque elaborare una proposta di capitalismo democratico adatta all’attuale fase economica e sociale, necessariamente molto diversa dal passato.Ma partiamo dal primo aspetto.

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In tutta Europa le elezioni degli ultimi anni hanno mostrato un chiaro trend: la grande difficoltà incontrata dalla sinistra riformista nel rappresentare i ceti più deboli e al contempo l’emergere di forze populiste che hanno occupato quello spazio politico, trovando bacino elettorale nella parte più vulnerabile della società, quella che ultimamente ha percepito le nuove forme del capitalismo globale come un grande pericolo. In Italia in particolare da ormai molti anni i partiti di sinistra trovano maggiore consenso tra le classi sociali meno esposte a tali rischi e nei grandi centri urbani, più che nelle periferie del paese.

Sebbene questi comportamenti elettorali trovino un tendenziale riscontro nei dati, tale percezione si è assolutizzata e ingigantita a tal punto che in una parte della società i partiti di sinistra vengono percepiti come forze che trovano la loro identità nell’establishment e la loro ragione nella conservazione del potere.Come si può spiegare questa eccessiva rappresentazione e quali cambiamenti le socialdemocrazie dovrebbero adottare in prospettiva?Probabilmente la principale ragione sta nel sostanziale ritardo delle socialdemocrazie europee a interpretare le trasformazioni economiche e sociali legate all’attuale modello di capitalismo.In gran parte infatti, tranne rare eccezioni, il dibattito all’interno dei partiti socialisti europei e certamente nel PD è rimasto ancorato a un manifesto programmatico e valoriale antecedente alla attuale fase.

A metà degli anni ’90, quando si assisteva ad un momento di crescita economica e occupazionale in gran parte d’ Europa si è pensato che il mercato potesse rappresentare il migliore strumento regolativo, non solo per garantire sviluppo, ma anche per operare riequilibrio sociale, con necessità di pochi correttivi. Se tale ipotesi poteva essere sostenuta in una fase di crescita economica e occupazionale, la lunga congiuntura negativa che stiamo vivendo cambia completamente lo scenario, poiché in assenza di significativi interventi nella regolazione di mercato non si avrà maggiore occupazione per tutti, ma solo maggiori disuguaglianze e erosione di diritti sociali per i più vulnerabili.E veniamo così al secondo aspetto.La storia e il successo delle socialdemocrazie sta nella proposta di una regolazione del mercato tramite l’intervento dello Stato per proteggere i meno privilegiati: quello che è stato chiamato il modello di capitalismo democratico, a partire dal secondo dopoguerra, è la base del modello sociale europeo e del suo Welfare State.

La fase attuale è però profondamente diversa, non solo rispetto al secondo dopoguerra, ma anche rispetto al 2007, quando nacque il PD. Non solo perché la lunga crisi economica, la pandemia e la guerra stanno mutando completamente lo scenario sociale ed economico a livello globale. Ma anche perché negli ultimi quindici anni, la crescente finanziarizzazione dell’economia e le trasformazioni tecnologiche hanno radicalmente modificato il modello di capitalismo, che richiede oggi nuova e maggiore regolazione per evitare crescenti iniquità. Un modello che oggi assume forme tali da rendere molto più complessa l’individuazione dei rischi a cui sono esposti i lavoratori e dunque gli strumenti regolativi più adatti per tutelare i più vulnerabili. C’è di più: le caratteristiche della cosiddetta società della conoscenza hanno trasformato a tal punto l’organizzazione del lavoro da segmentare i rischi a cui sono esposti i lavoratori, difficilmente oggi tutelabili come “classe per sé”. Siamo ben lontani dunque dalla fase in cui Edward Palmer Thompson ebbe a dire “la classe operaia non sorse come il sole, ad un’ora determinata. Era presente alla sua propria formazione”.Oggi occorre un vero e complesso sforzo di elaborazione per individuare le forme di capitalismo democratico tali da rappresentare i bisogni di tutti i lavoratori e avanzare una proposta capace di regolare il mercato per evitare nuove e crescenti disuguaglianze tra chi ha diverse opportunità alla nascita.

Ecco, se il Congresso della principale forza della sinistra riformista italiana, partendo dalla revisione e dall’adeguamento – che non vuol dire stravolgimento- delle sue proposte programmatiche e valoriali, saprà cogliere questa sfida, sarà all’altezza di rappresentare uno dei temi su cui è da tempo chiamata a misurarsi l’Europa stessa. E allora tornerà probabilmente a convincere molti elettori.

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