Nel dibattito sulla crisi della sinistra italiana, mi sembra che continui a mancare una riflessione su due elementi fondamentali con i quali è necessario confrontarsi per trovare le fila di una possibile rinascita: il perdurare, nonostante disastrose sconfitte, di un approccio ideologico, assoluto e persino clericale, e una vera e propria mutazione genetica che ha visto il passaggio dall’idealismo al moralismo. È dalla sintesi di questi due temi che a mio avviso derivano i problemi che hanno allontanato gli elettori: la supponenza intellettuale, il considerarsi un’élite di ottimati e l’incapacità di mettersi sinceramente in discussione.
Di fronte al fallimento di ideali sconfitti dalla storia si tende tuttora a minimizzare, rimuovere, salvare la nobiltà degli intenti o rubricare la disfatta come un tradimento di quelle idee e non come l’inevitabile conseguenza: illuminante in tale senso il rapporto con i leader carismatici del passato, simile a quello che ha la chiesa nei confronti dei santi, ma rispetto ai quali bisognerebbe avere maggiore laicità. La mutazione genetica, uso questa espressione non a caso, ha origine a mio avviso nell’intervista di Enrico Berlinguer sulla “questione morale”: non mi sfugge la sua grande rettitudine morale e l’indubbio coraggio dimostrato ripetutamente, a cominciare dal compromesso storico sino al tentativo di affrancamento da Mosca, ma credo che sia giunto il momento di interrogarsi se quel passaggio non abbia inoculato un virus nel corpo della sinistra, di cui oggi paga le conseguenze.
Cosciente del fallimento del comunismo, e in difficoltà a far passare il messaggio della terza via – ambiguo nella definizione e con troppe similitudini con la socialdemocrazia disprezzata sino a poco prima – Berlinguer ha spostato il baricentro ideale di una convinzione politica che aveva tutti i crismi della fede, offrendo ai propri elettori un nuovo ubi consistam, luminoso quanto abbagliante. È in questa mutazione che nasce il mito della “diversità” di un mondo che troppo spesso continua a considerarsi superiore da un punto morale, culturale e persino antropologico, ma che invece ha dimostrato un attaccamento a dir poco disinvolto al potere e una grave consuetudine con la corruzione. È in virtù della “diversità” di chi è convinto di essere nel giusto che sono nati gli atteggiamenti sconcertanti a cui abbiamo assistito negli ultimi anni: come deve sentirsi oggi un elettore di sinistra quando sente che il primo ministro che ha firmato i decreti sicurezza del governo di destra è diventato “un fortissimo punto di riferimento di tutti i progressisti”?
È sufficiente che una persona demonizzata cambi campo perché gli vengano perdonati tutti i peccati? E come deve sentirsi oggi lo stesso elettore di fronte alle mazzette ricevute da esponenti della propria parte per ammorbidire le critiche sui mondiali di calcio? La storia insegna che dietro il moralismo e il clericalismo c’è spesso il malaffare, e come se non bastasse il fronte progressista si è distinto costantemente con atteggiamenti conservatori, a partire dal tema fondamentale della giustizia: la denuncia di procedimenti penali o articoli con cui vengono distrutte anche persone innocenti genera un’immediata difesa d’ufficio che parla con veemenza di leggi “bavaglio” o “salva-corrotti”. Ma ogni elettore, di qualunque colore politico, intravede in queste aberrazioni un rischio anche per se stesso, mentre la sacralità dell’istituzione, o peggio, del partito, viene privilegiata sul rispetto della dignità dell’individuo.
Quando scoppiò la vicenda che vide coinvolto Ottaviano Del Turco, drasticamente ridimensionata in fase dibattimentale, ne venne rimarcata la provenienza socialista rispetto all’appartenenza al PD, e la dirigenza dichiarò che avrebbe dovuto “dimostrare la sua innocenza,” negando un pilastro della cultura giuridica per cui spetta all’accusa dimostrare la colpevolezza.
Credo che non ci sia elettore che anche in quel caso non abbia pensato “ma se succede a me?”, chiedendosi già allora con che credibilità lo stesso partito potesse rappresentare valori nobili come la giustizia, l’uguaglianza, la solidarietà e l’inclusione. So bene che in politica è rischiosissimo ammettere i propri errori, ma si ha la costante impressione che non assumersi le proprie responsabilità sia un modo di tutelare un valore superiore tutto da dimostrare, sperando che il tempo o l’oblio possano purificare ogni efferatezza. Sembra insomma che si abbia paura che salti per aria l’intera costruzione, che nel frattempo ha sempre più le sembianze di un rudere, e pur di preservare la Verità, la Diversità e la Superiorità si dà luogo a infinite sedute di autocoscienza, assumendo di volta in volta i panni di Pilato e di Caifa: meglio lavarsi le mani o stracciarsi le vesti che finire sulla croce. Credo che quello che oggi manchi alla sinistra sia in primo luogo l’umiltà: invece di prenderne gli atteggiamenti confessionali, dovrebbe mostrare il coraggio con cui la chiesa si è scusata dei gravissimi scandali in cui è stata coinvolta affermando senza mezzi termini “abbiamo sbagliato”.
Da quanto dichiarano, i due candidati alla segreteria appaiono sinceramente interessati ad apportare cambiamenti radicali, consapevoli che non ci sarebbe niente di peggio dell'”eterno ritorno dell’identico”: è l’unica strada possibile, e spero che smentisca nei fatti ogni forma di conservazione, clericalismo e moralismo.