Erede di Giovanni Paolo II, ha certificato la crisi di quel modello di Chiesa. Teologo conservatore, ha spianato la strada all’elezione di un successore riformista. Custode della tradizione, con la sua rinuncia ha rivoluzionato per sempre il papato. Benedetto XVI, morto oggi all’età di 95 anni, è stato un papa enigmatico, una figura a tratti tragica, un uomo che ha albergato in sé le tensioni e le contraddizioni del cattolicesimo contemporaneo.
Nato in un’umile famiglia bavarese il 16 aprile 1927, a Marktl am Inn, entrato dodicenne in seminario, studente brillante, Joseph Ratzinger iniziò a soli 30 anni una prestigiosa carriera accademica. Partecipò da “perito teologico” al Concilio vaticano II nelle fila dei progressisti (1962-1965), poi – lo ha raccontato egli stesso – qualcosa si è rotto. Arrivò il Sessantotto, le contestazioni studentesche lo turbarono, si convinse che un pezzo di Chiesa stava travisando l’eredità conciliare in chiave progressista. Divenne cauto, guardingo.
Paolo VI lo nominò arcivescovo di Monaco di Baviera e lo creò cardinale nel 1977, Giovanni Paolo II lo volle accanto a sé a Roma, nel 1981, come prefetto della congregazione per la Dottrina della fede, il guardiano della ortodossia cattolica. Fu schernito come il “Panzerkardinal”, il cardinale-carro armato, non gli mancarono, in realtà, delicatezza umana e raffinatezza intellettuale. Nel cuore dell’establishment vaticano, rimase ai margini della corte wojtyliana. Provò a dimettersi, il papa polacco rifiutò. E, morto Wojtyla, fu eletto quasi naturalmente, il 16 aprile 2005, 264esimo successore di Pietro. “Il pensiero della ghigliottina mi è venuto”, confidò al giornalista tedesco Peter Seewald: “Ecco, ora cade e ti colpisce”.
Nelle intenzioni dei suoi sponsor avrebbe rilanciato il wojtylismo, accentuandone l’intransigenza nei confronti della modernità; ha lasciato esplodere gli scandali che iniziavano a venire a galla. Gli otto anni di pontificato sono stati accidentati e drammatici. “Sarò un umile servitore nella vigna del Signore”, annunciò ai fedeli dal loggione centrale di San Pietro. Benedetto XVI ha fatto molto, viaggiato molto, e scritto molto. Trenta viaggi in Italia, ventiquattro all’estero, la cordialità con George W. Bush, il rilancio delle relazioni con la Cina seguito da una clamorosa marcia indietro, i rapporti travagliati con l’Italia di Berlusconi, Prodi, Monti. Una dura prova per un uomo timido, refrattario ai bagni di folla di wojtyliana memoria.
“Il governo pratico non è il mio forte e questa è certo una debolezza”, ammetterà dopo essersi ritirato. Ratzinger non ha mai smesso di essere professore: oltre a tre encicliche (“Caritas in veritate”, “Deus Caritas est”, “Spe Salvi”), ha mantenuto una ricca corrispondenza con filosofi e teologi, non priva di punte polemiche, ha continuato ad incontrare i suoi ex studenti, riuniti nel Ratzinger Schuelerkreis, ed ha scritto tre libri su Gesù di Nazaret, un impegno di tempo e di energie che ha fatto storcere il naso a più di un officiale di Curia preoccupato che fosse distratto dall’attività di governo e desse segnali di insofferenza per il ruolo di papa. Impensierito da un’Europa che rischia la “apostasia” da se stessa, e più ingenerale da un mondo dove i cristiani sono ignorati o perseguitati, impegnato nello sforzo di una “nuova evangelizzazione”, da costruire a partire dai “valori non negoziabili”, fautore di un cristianesimo minoritario e contro-culturale, “sale della terra” più che trionfante, il papa tedesco è incappato in svariati incidenti, che hanno modificato in corso d’opera l’agenda del pontificato. Non è stato aiutato dai suoi collaboratori più stretti, a partire dall’esuberante cardinale Segretario di Stato Tarcisio Bertone, amico di lunga data che non ha voluto abbandonare ai suoi destini, a costo di zavorrare il pontificato e nonostante le critiche che arrivavano dallo stesso campo ratzingeriano.
Il papa tedesco ha acceso la rabbia nel mondo musulmano con il noto discorso di Ratisbona su fede e ragione (tematica incandescente affrontata da professore, ammetterà egli stesso anni dopo, e senza la necessaria accortezza diplomatica); ha irritato l’ebraismo con la decisione di beatificare il controverso papa Pio XII; ha scatenato le proteste di molti episcopati quando ha tolto la scomunica ai lefebvriani. Un vero e proprio rovello, per Ratzinger, che considerava il Concilio vaticano II, contestato dai tradizionalisti, non già in “discontinuità” o “rottura” con il passato ma quale “rinnovamento nella continuità dell’unico soggetto-Chiesa”. Benedetto XVI è stato investito, soprattutto, da questioni che affondavano le loro radici nel pontificato di Wojtyla, senza godere, però, della “immunità” mediatica di cui beneficiava il suo predecessore.
Gli abusi sessuali sui minori, innanzitutto: uno scandalo emerso una prima volta negli Stati Uniti nel 2001, ma tornato ad esplodere, a partire dal 2009, in mezza Europa. Prima di essere eletto, nella Via crucis del 2005, l’allora cardinale Ratzinger aveva denunciato la “sporcizia” della Chiesa, da Pontefice tacitò le prudenze curiali scandendo che “la più grande persecuzione della Chiesa non viene dai nemici fuori, ma nasce dal peccato nella Chiesa”. Una piaga, quella della pedofilia del clero, che tornerà ad investirlo quando, ormai emerito, l’arcidiocesi di Monaco porterà alla luce la leggerezza con la quale, da arcivescovo, aveva trattato il caso di un abusatore seriale. Da papa, Benedetto ha incontrato vittime, ha rimosso vescovi, ha dato un giro di vite alle norme canoniche.
Clamoroso il caso del fondatore dei Legionari di Cristo, il sacerdote messicano Marcial Maciel, intoccabile nell’era Wojtyla, sanzionato dal papa tedesco. Ratzinger, ancora, ha firmato una storica convenzione finanziaria con l’Unione europea, nel nome della trasparenza, che ha innescato violenti conflitti attorno alle finanze vaticane, culminati con il traumatico licenziamento del banchiere dell’Opus Dei Ettore Gotti Tedeschi dalla presidenza dello Ior: Benedetto, si mormorò, non era stato preavvertito. Da ultimo, la fuga di documenti riservati dall’Appartamento papale, terminale di un opaco regolamento di conti di fine pontificato: il maggiordomo Paolo Gabriele, autore materiale del furto, affermò che Benedetto XVI gli sembrava “manipolabile”, poco informato dai suoi collaboratori. Il pontificato si è avvitato su se stesso. Fino al clamoroso annuncio, comunicato in latino l’11 febbraio 2013 agli increduli cardinali riuniti in un concistoro ordinario, di una rinuncia al pontificato senza precedenti nella storia moderna: “Dopo aver ripetutamente esaminato la mia coscienza davanti a Dio, sono pervenuto alla certezza che le mie forze, per l’età avanzata, non sono più adatte per esercitare in modo adeguato il ministero petrino”. Un trauma.
“Non si scende dalla croce”, commentò lo storico segretario di Giovanni Paolo II, il cardinale Stanislaw Dziwisz; in Italia, il cardinale Camillo Ruini chiosò la notizia con gelo. Benedetto ha scombinato i piani di chi preparava anzitempo la successione. Joseph Ratzinger e Jorge Mario Bergoglio non potevano essere più diversi ma l’elezione del secondo non sarebbe stata possibile senza la rinuncia del primo. La coabitazione, tuttavia, inizialmente cordiale, si è increspata col tempo. Sono emerse le differenze di fondo. E’ stato lo stesso Francesco ad incoraggiarlo a non rimanere “nascosto”, come egli aveva preventivato. E il “papa emerito”, sempre vestito di bianco, è sì rimasto al riparo del monastero Mater Ecclesiae, nei giardini vaticani. Ma nei quadi dieci anni che lì ha trascorso – più della durata del pontificato – ha ricevuto una lunga teoria di sacerdoti, vescovi, anche cardinali che salivano al monastero per lamentarsi del Papa regnante. Sempre assistito dal suo segretario particolare, mons. Georg Gaenswein, oltre che da quattro consacrate laiche, ha continuato a pubblicare messaggi, lettere, saggi – sulla comunione ai divorziati risposati, sugli abusi sessuali, la cui causa prima, a suo avviso, è il tracollo morale del Sessantotto, sul celibato obbligatorio – interpretabili, con un po’ di malizia, come contrappunti, se non interferenze, alle aperture bergogliane.
Ora Benedetto XVI è morto, lasciando la testimonianza di un pontificato singolare. Messo in ombra dal carisma tanto di Giovanni Paolo II quando di Francesco – la proporzione delle cartoline nelle edicole attorno al Vaticano lo testimonia – Ratzinger rimane il campione dell’ortodossia cattolica che, con la rinuncia, ha rivoluzionato per sempre la figura del papato e il volto di Santa Romana Chiesa.