LONDRA – Cosa succederà adesso in Israele e a Gaza? L’annuncio del cessate il fuoco è stato unanimemente accolto come la buona novella che tutti aspettavano: in Medio Oriente, in Europa, in America, nel mondo. Ma lascia innumerevoli interrogativi e non pochi timori. Entrerà in vigore soltanto domenica e sarà la prima di tre fasi lunghe e complesse per arrivare davvero alla ricostruzione della Striscia. La pace fra israeliani e palestinesi è un progetto ancora più lontano, sebbene il presidente Usa Joe Biden l’abbia già invocata. Anche il suo successore Donald Trump, nel post pubblicato sui social media a botta calda, parla di un accordo “epico”, rivendicandone il merito, questa volta a ragione, perché il suo imminente arrivo alla Casa Bianca è stato uno degli elementi chiave per ridare vita all’intesa proposta da Biden in maggio ma non realizzata.
Nel suo messaggio Trump non ha nemmeno pronunciato la parola “palestinesi”, concentrandosi piuttosto sul rilancio degli accordi di Abramo firmati durante la sua prima amministrazione fra lo Stato ebraico e quattro Paesi arabi, chiaramente con il progetto di estenderli all’Arabia Saudita, il piano che Biden stava negoziando quando Hamas attaccò Israele il 7 ottobre 2023.
La condizione posta dai sauditi per normalizzare i rapporti con Israele, tuttavia, era e rimane la creazione di uno Stato palestinese, o almeno la ripresa del negoziato per arrivarci. Un vasto programma, insomma, su cui pesano le incertezze immediate. Intanto, perlomeno, c’è una road map per interrompere i combattimenti e liberare gli ostaggi: ecco quali sono le prime tappe che si delineano.
Cosa succede in Israele
Il governo di Benjamin Netanyahu deve approvare l’accordo. Due ministri sono contrari e lo hanno già definito “una resa”: Bezalel Smotrich e Itamar Ben-Gvir, leader dei due piccoli partiti di estrema destra che sorreggono la coalizione governativa. L’accordo sarà approvato a maggioranza, ma i due ministri si dimetteranno dall’esecutivo e lasceranno la maggioranza governativa? Ben-Gvir ha già esortato Smotrich a farlo, ma quest’ultimo non sembra avere fretta di trascinare Israele verso elezioni anticipate: nei sondaggi su un possibile voto, il suo partito riceve al momento zero seggi.
Proteste o dimissioni?
Una possibilità è dunque che i due ultrà della destra israeliana strepitino contro l’accordo, ma rimangano nel governo. Un’altra è che, se loro ne escono, qualche altro piccolo partito si lasci convincere da Netanyahu, o da Trump e dal suo abile emissario mediorientale, il palazzinaro Steven Witkoff, a entrare nella coalizione per mantenerla in piedi sino alla fine della legislatura, che comunque si avvicina: le elezioni sono in programma a fine 2026, tra un anno di fatto inizierà la campagna elettorale.
Tregua o fine del conflitto?
L’incognita più immediata è che intenzioni abbia Netanyahu per Gaza. Il premier ha indicato come obiettivo della guerra la distruzione di Hamas: ha ucciso tutti i capi dell’organizzazione fondamentalista islamica e eliminato tre quarti dei suoi militanti, ma non l’ha completamente distrutta, nei tunnel della Striscia ci sono ancora capi e attivisti con il mitra in pugno. Bibi, come i suoi sostenitori chiamano il leader dl Likud, vuole davvero la fine della guerra o mira soltanto a una pausa, per riportare a casa gli ostaggi, almeno una parte di essi, e per fare contento Trump, oppure aspetta soltanto l’occasione per riprenderla?
Trump e Netanyahu
Il dubbio che deriva da questa domanda è che cosa Trump abbia mandato a dire a Netanyahu per fargli accettare ora l’accordo messo sul tavolo da Biden e rifiutato (in verità anche da Hamas) nel maggio scorso. La promessa di una pace con l’Arabia Saudita, che pure farebbe passare Netanyahu alla storia e, quando Israele andrà alle urne, potrebbe perfino evitargli la sconfitta attualmente predetta dai sondaggi, non sarebbe necessariamente sufficiente, anche perché comporterebbe concessioni al progetto di unoSstato palestinese che Netanyahu respinge da anni (non lo respingeva del tutto, però, all’inizio della sua carriera da primo ministro). Forse Trump gli ha dato un via libera a raid per compromettere il programma nucleare iraniano? O gli ha promesso qualcos’altro? Nel suo primo mandato Trump ha fatto cose per Israele che nessun presidente americano aveva mai fatto, come spostare l’ambasciata Usa da Tel Aviv a Gerusalemme; e la sua squadra di politica estera è imbottita di filoisraeliani. Ma c’è una differenza con il suo predecessore: Biden è stato per tutta la vita un accanito sostenitore di Israele, praticamente un sionista, mentre Trump non ha un attaccamento ideologico allo Stato ebraico. Per cui è in certa misura imprevedibile anche per il suo amico Netanyahu.
Cosa succede a Gaza
Non meno interrogativi riguardano la Striscia. Con il cessate il fuoco, Hamas può vantare di avere resistito a Israele, per quanto a un prezzo enorme per gli abitanti di Gaza e per il movimento che la governa dal 2006: infatti qualcuno dei suoi rappresentanti presenta già l’accordo come una “vittoria”. L’intesa promette il rilascio in fasi di almeno 1500 detenuti palestinesi imprigionati da Israele, compresi alcuni condannati per omicidio e terrorismo: anche questo verrà presentato da Hamas come un successo. Il terzo risultato positivo, se le varie fasi del cessate il fuoco andassero in porto, sarebbe il graduale ritiro delle forze israeliane da tutta Gaza, o quasi, permettendo a quello che resta di Hamas di uscire dai tunnel e riorganizzarsi. Ma poi? Cosa faranno i jihadisti a quel punto?
Chi governerà la Striscia?
Non è soltanto Israele a volere che qualcun altro governi la Striscia: anche Qatar ed Egitto, i due mediatori arabi del cessate il fuoco, vogliono la fine del regime di Hamas. Sauditi ed emirati del Golfo, gli unici con i soldi, ovvero molti miliardi di dollari, per ricostruire un territorio distrutto all’80 per cento, non sborseranno un petrodollaro finché a Gaza comanda Hamas. I mediatori potrebbero avere ventilato l’ipotesi di un salvacondotto in un altro Paese per i capi del gruppo e un’amnistia per i militanti che consegnano le armi (lo stesso Netanyahu aveva promesso salva la vita a chi di loro si fosse arreso). Chi governerebbe Gaza, se Hamas si facesse da parte, è però un altro mistero. L’Autorità Nazionale Palestinese (Anp) di Abu Mazen, il vecchissimo capo, criticato e corrotto? Pare difficile, anche se l’Anp si è candidata a farlo lanciando nei giorni scorsi brutali operazioni contro i suoi avversari radicali islamici in Cisgiordania, con una violenza non dissimile da quella usata in azioni del genere dalle forze israeliane. Oppure il compito spetterà alla cosiddetta “Anp rinnovata”, di cui hanno parlato in tanti, compreso Biden e i suoi diplomatici, nell’ultimo anno? Forse un’allusione, quest’ultima, a uomini come Mohammed Dahlan, l’ex-capo dei servizi di sicurezza palestinesi, che è di Gaza ma vive in esilio a Dubai da anni, da quando è stato cacciato via da Hamas e ha rotto anche con Abu Mazen. In teoria, al termine delle tre fasi del cessate il fuoco, se Hamas uscisse davvero di scena, Gaza potrebbe venire governata per un periodo di transizione da coordinatori e forze di pace arabe, eventualmente sostenute dai caschi blu dell’Onu lungo le frontiere, come nel Libano meridionale (dove, peraltro, i caschi blu non sono mai veramente riusciti a impedire la presenza di Hezbollah).
Ostaggi, detenuti e camion di aiuti
Cosa succederà nell’immediato, in Israele e a Gaza, è noto, sempre che domenica il cessate il fuoco cominci davvero: restano ancora tre giorni in cui i combattimenti possono continuare, nei quali chi è contrario all’accordo può scatenare incidenti in grado di comprometterlo. Ma se domenica si smetterà di sparare, nelle 24 ore successive arriveranno in Israele i primi tre ostaggi liberati, tre donne: magari il 20 gennaio, poco prima o nel momento stesso in cui Trump giurerà sulla Bibbia a Washington, in un dejà vu del rilascio dei 52 ostaggi americani tenuti prigionieri per un anno a Teheran, liberati il 20 gennaio 1981 mentre Jimmy Carter lasciava la Casa Bianca e ci entrava Ronald Reagan. Contemporaneamente, 30 detenuti palestinesi saranno rilasciati da Israele per ogni ostaggio israeliano liberato da Hamas, numero che salirà a 50 per ogni ostaggio quando più tardi toccherà a israeliani di sesso maschile e militari.
Al tempo stesso, 600 camion di rifornimenti al giorno entreranno nella Striscia, diretti principalmente nel nord di Gaza, la parte più affamata e in penuria di tutto. Le forze israeliane inizieranno a ritirarsi dalle zone abitate, anche dal corridoio che divide in due la Striscia, dove potrebbero essere sostituite da una forza militare o di polizia non ancora bene identificata cui spetterà il compito di verificare che a tornare verso le proprie case o, meglio, verso le rovine di quelle che erano le loro case, saranno soltanto civili e non combattenti armati di Hamas.
Una “calma sostenibile”
Ci è voluto più di un anno di trattative per fermare la guerra, commenta il Financial Times, ma in confronto all’esigenza di ricostruire Gaza, per tacere della costruzione della pace, il cessate il fuoco è stato la parte più facile. L’accordo annunciato mercoledì “è un cattivo accordo perché non porta a casa subito tutti gli ostaggi, perché si sviluppa nell’arco di tre mesi, perché non dice chi governerà Gaza”, osserva l’ex-negoziatore israeliano Gershon Baskin, che probabilmente conosce Hamas meglio di ogni suo compatriota, “ma deve portare lo stesso alla fine della guerra”. Nel lungo termine, si augura Baskin, l’accordo dovrebbe segnare la fine di Hamas a Gaza e la fine anche per Netanyahu in Israele, riproponendo l’unica soluzione possibile per due popoli che vivono uno accanto l’altro: due Stati. Ma nel breve termine, come dicono realisticamente i mediatori del Qatar, sarebbe già tanto se il cessate il fuoco portasse “una calma sostenibile”, almeno per un po’, al termine della guerra più lunga e sanguinosa fra israeliani e palestinesi.