Franco Battiato dalla A alla Zeta

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MILO – Sdraiato sul bordo di una piscina scavata nella lava dell’Etna, Franco Battiato prende placidamente il sole. Finge di ignorare quattro giovanotti che, passando sotto la villa, sbirciano tra le ringhiere, abbassano il finestrino della Seicento e urlano “Cu-cu-ru-ccu-cù”, ridendo di soddisfazione per aver visto, riconosciuto e salutato – a modo loro, certo – il divo, il re della musica elettronica. Perché Battiato si sforzi di essere l’esatto contrario di tutto ciò, quei quattro giovanotti della Seicento non riescono a capirlo. Né deve convincerli del tutto la sua decisione di abbandonare Milano proprio all’apice del successo, e di tornarsene da queste parti, tra i vigneti a terrazze e i boschi di castagni e di noccioli. Ma Battiato, come dicevamo, finge di ignorarli e pensa a riposarsi. Ammesso che il suo si possa chiamare riposo: perché lavora alle musiche del film Benvenuto Cellini, girato da Giacomo Battiato (omonimo ma non parente, neanche alla lontana). Pensa alla strumentazione della sua seconda opera lirica. Gilgamesh, per la quale si è già interessato il sovrintendente della Scala Carlo Maria Badini.

Ora si informa per telefono su quando sarà pronto per l’uscita del suo prossimo album, Giubbe rosse. E intanto legge tutt’altro che distrattamente il dattiloscritto di un libro sui Sufi e sulla mistica dell’Islam che deve decidere – nel ruolo un po’ a sorpresa dell’editore – se dare alle stampe oppure no. In realtà ha già deciso: “Lo pubblicherò, è molto bello”. A parlarci, Battiato sembra un tranquillo signore di buona cultura. Un uomo gentile. Limpido. Spiritoso. Ma se non vi lascerete distrarre dal suo (legittimo) entusiasmo per la vecchia casa padronale che ha appena finito di restaurare, e se non vi farete ammaliare da una paradisiaca pasta con le melanzane e la ricotta salata preparata da mamma Grazia, se resterete lucidi in quella miscela di sole, di fresco e di profumi che il vulcano ha regalato alla gente di Milo, allora verrà il momento in cui gli chiederete chi sia il vero Battiato. Il cantautore che ormai vende i suoi Lp a scatola chiusa o il compositore che conquista il loggione del Regio di Parma? Il musicista mistico che il papa chiama a suonare per lui in Vaticano o l’artista impegnato che Pannella tenta invano di catturare per le sue liste? L’uomo del Sud che canta in siciliano e parla fluentemente l’arabo, o il manager di se stesso che ha passato più di metà della sua vita all’ombra della Madonnina?

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E a quel punto Battiato forse accetterà di ripercorrere pazientemente il suo cammino attraverso la musica e la vita. Esponendo, immancabilmente, una premessa fondamentale: “C’è stato un momento in cui ho creduto che la musica fosse un fine. Ce n’è stato un altro in cui pensavo che la musica fosse un mezzo. Oggi sono arrivato alla conclusione che la musica sia trasformazione: lo specchio della trasformazione di chi la fa, lo strumento della trasformazione di chi la ascolta”. La musica, lui la incontrò prestissimo, nella casa di Riposto dove nacque 44 anni fa, grazie alla chitarra di suo padre Salvatore. A sei anni, visto che il piccolo Franco chiedeva solo strumenti musicali, la mamma lo mandò a scuola di pianoforte da una cugina. A undici, quel ragazzino era già il capo di una band di musica rock. “Una volta – ricorda Battiato – suonammo su un carro in maschera, al Carnevale di Acireale. Ci diedero 13 mila lire a testa, una cifra per il 1955. Tornai a casa tutto contento per quel guadagno che mi sembrava pazzesco, da favola, ma trovai mio padre furibondo. Temeva che trascurassi gli studi, perciò mi ordinò di smettere: questa è l’ ultima volta, mi disse”. Vennero gli anni del liceo, delle prime composizioni in siciliano, delle notti passate con l’orecchio attaccato alla radio. Poi, dopo la maturità e la morte del padre, la svolta: “Mi ero iscritto a Lingue, ma senza un vero interesse. Più passava il tempo e più mi rendevo conto che la mia unica passione era la musica. Così una mattina, durante un esame di francese, proprio mentre la professoressa mi interrogava, io decisi: sarei partito per Milano, avrei cercato lì la mia strada”. Salito sul treno per il Nord con la sua chitarra, il diciottenne Battiato si rese presto conto che Milano non stava certo aspettando lui. E cominciò a leggere gli annunci economici. “Ne vidi uno che diceva: cercasi voci nuove. Incidevano i dischi di plastica che La Settimana Enigmistica dava in omaggio. Vado lì e uno mi dice: cosa vuoi cantare? Io: E più ti amo di Alain Barrière. Non feci in tempo a cominciare che quello mi interruppe: ok, va bene, domani sera in sala d’incisione”. L’ inizio era incoraggiante, ma la strada era tutta in salita: ci volevano ben tre di quei dischi di plastica per pagare le 15 mila lire al mese della pensione. Non potevano bastare, e il cantante venuto da Riposto finì col fare il magazziniere. Ci rimase sei mesi, finché il Cab 64 non aprì le porte a lui e alla sua chitarra. Passò al teatro, chiamato da Cino Negri, poi formò la sua seconda band, Le Torri. “Suonavamo una musica talmente dura che spesso i gestori dei locali venivano a staccarci la spina. Però le cose giravano già in un altro modo: potevo far venire a Milano mia madre”.

L’amicizia con Giorgio Gaber gli permise di incidere il suo primo 45 giri, Le mie reazioni, canzoni di protesta alla Dylan: vendite, zero. La sorpresa venne invece dal secondo disco, E’ l’amore. Lanciato da Arbore alla radio, diventò gettonatissimo nei juke-box e vinse l’ edizione 1968 di Settevoci. Mentre Capanna occupava la Statale, Battiato assaporava per la prima volta il successo. Ma quella non era la sua strada: se ne accorse lui stesso quando, l’anno dopo, venne scartato senza tanti complimenti dal Disco per l’Estate. Amareggiato da quel verdetto, Battiato reagì a modo suo. Per due anni non si fece più vedere, non scrisse un rigo, non cantò una strofa. Quando tornò in sala d’incisione, di canzonette non voleva più saperne: aveva scoperto la musica elettronica. Ero andato in Inghilterra e lì avevo comprato per curiosità due sintetizzatori, roba che ancora da noi non s’era mai vista. Per me fu come atterrare su una pianeta sconosciuto. “Era tale la novità, era tanta l’eccitazione per quei nuovi suoni che la tastiera ti offriva, che la notte non riuscivo a dormire. Le mie prove erano un viaggio psicologico; passavo anche otto o dieci ore davanti al sintetizzatore senza muovere un muscolo”. Il primo album, Fetus, andò così così: settemila copie e qualche buona recensione.

Ancora una volta fu il secondo disco a fare il botto: Pollution superò subito le 20 mila copie e gli aprì la strada dei concerti all’aperto. Come in un copione già scritto, dopo aver raggiunto per la seconda volta il successo, Battiato piombò in una nuova crisi. Cos’era successo? “Nulla, apparentemente. Solo che dopo sette, otto concerti io mi resi conto che quello che stava succedendo non mi piaceva affatto. Sentivo che la mia musica faceva da ponte, da detonatore, per l’energia di tutti noi: di chi l’ascoltava e di chi la suonava. Man mano che il ritmo cresceva ci scatenavamo tutti, ed era qualcosa di spaventosamente incontrollabile. Non era solo la gente che si lanciava le sedie in testa. Una sera il tastierista saltò addosso al violinista. Un’altra io ero talmente preso che mi accorsi solo a fine serata che mi ero ustionato la schiena con un cavo elettrico. Non mi piace, dissi al mio impresario. Lui, poveretto, passò intere notti a cercare di farmi cambiare idea, ma io avevo già detto basta alla musica schizofrenica”. Non era solo una crisi musicale: dietro quel rifiuto c’ era uno sbandamento esistenziale destinato a cambiare radicalmente la vita di Franco Battiato: “Ero finito nel vortice di quello che gli stupidi chiamano esaurimento nervoso. In realtà, oggi posso dirlo, si tratta di un dono divino che dà all’individuo la possibilità di cambiare la sua evoluzione. Come nell’assioma sufi, chi prova sa, chi non prova non sa”.

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(fotogramma)

Per quattro anni, fino al 1979, si dedicò allo studio e alla ricerca. Apprese la notazione classica, studiò armonia e composizione, imparò a suonare il violino. “In quegli anni – dice – oggi ho scritto la musica più pura della mia vita: L’Egitto prima delle sabbie, del 1978, è ancora la mia composizione preferita. Contemporaneamente Battiato si tuffò nella mistica orientale. Scoprì Gurdjieff, uno dei grandi maestri del Novecento, e volle imparare l’arabo classico. Ogni tanto saliva su una di quelle corriere che partono avventurosamente dall’Europa dirette in India, e scendeva in Turchia con la sua tastiera. “Giravo per le città di frontiera assieme a due vecchi suonatori. Era una esperienza interessantissima, ti poteva capitare di tutto. Una sera seppi che c’era un festival di musica orientale e chiesi se potevo suonare anch’io. Certo, mi risposero, ma c’è posto solo alla fine, a mezzanotte. Io aspettai pazientemente che venisse il mio turno, poi salii sul palco e cominciai con una nota che cresceva lentamente di intensità. Quando rialzai gli occhi dalla tastiera, saranno passati sì e no venti secondi, l’arena era deserta: se n’erano andati tutti, proprio tutti. Che scena!”.

Quel lungo ritiro spirituale finì per una scommessa con i giornalisti di Muzak: “Io sostenevo che il modello delle canzoni di successo di allora era semplice. Guardate, dicevo, che non è difficile scrivere questa roba. E allora, rispondevano loro, perché non la scrivi tu? Accettai la scommessa e incisi L’era del cinghiale bianco. Avevo ragione io: vendetti 150 mila copie. Dopo il successo delle canzonette, dopo l’ exploit psichedelico, per la terza volta Battiato era sulla cresta dell’onda. Stavolta per restarci. Uno dopo l’altro sono arrivati Patriota (230 mila copie vendute), La voce del padrone (primo Lp a sfondare in Italia il tetto del milione di copie) e L’arca di Noè, seguiti da Orizzonti perduti e da Fisiognomica. Soddisfatto ma non pago del successo in hit-parade, Battiato ha schivato le tournée e si è dedicato a quella che lui chiama “l’altra musica”, la composizione classica. “La mia prima opera, Genesi, mi ha dato una delle più grosse soddisfazioni della mia vita confessa perché ho dovuto superare tutte le prevenzioni di chi la ascoltava pensando che l’aveva scritta un cantautore. Vede, per me non esiste musica di sere A e di serie B. Ma le canzoni sono fatte apposta per comunicare, devono rispettare alcuni canoni. Quando scrivo questa musica, invece, non ho problemi di durata, di ritmi, di trasformazione del linguaggio. E’ una dimensione diversa, è quella che considero più mia. Diciamo che se fossi in punto di morte scriverei solo questa musica”. Eppure è stata proprio la sua musica mistica, quella di Oceano di silenzio, che Giovanni Paolo II ha chiesto a Battiato di suonargli nella sala Nervi. Lui sorride, ripensando a quell’invito: “Mi chiamò Di Lornia, della Emi, e mi disse: A Battia’ , te vole er papa. Ci pensai un po’ su, poi risposi: ci vado”. E vero che ha detto: vado dal papa ma non sono cattolico? “Io ho una relazione mistica col creato, la mia idea del divino è la mia ricerca. Non mi sono mai immaginato nulla se non quello che via via sperimentavo. Quindi non sono né musulmano né induista né cattolico. Come si fa a dire: sono questo o quello?”. Cala la sera, sui crinali dell’Etna. E da lontano si sente di nuovo lo scoppiettio allegro della Seicento impertinente. A proposito, perché è tornato da queste parti? C’è una pausa di silenzio, prima della risposta: “Perché la Sicilia richiama sempre i suoi figli. Devono riportare a casa quello che hanno imparato fuori. Così a un certo punto io ho sentito che dovevo tornare qui. Ognuno ha la sua terra e questa è la mia”.

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