Fosse Ardeatine, per Priebke una Norimberga all’italiana

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Il processo che così si è concluso ha posto alla pubblica opinione alcuni quesiti di non facile soluzione. Primo: Priebke poteva rifiutare l’’ordine che arrivava direttamente da Keitel comandante della Wehrmacht, chiamato durante il processo di Norimberga “il fattorino”, come colui che aveva il compito di trasmettere senza discussione gli ordini di Hitler?

Uno studioso della storia del III Reich risponderebbe: non avrebbe potuto ma non avrebbe neanche voluto. Pensare che uno come Priebke entrato volontario nelle Ss sarebbe arretrato di fronte alla spaventosa grandezza del crimine non ha senso. Ci sono stati ordini di Hitler che hanno provocato la morte di centinaia di migliaia di tedeschi e che sono stati accettati anche da alti personaggi come Speer, come i generali Guderian e Jodl, fra i pochissimi che avessero il coraggio di opporsi alle decisioni più folli del dittatore, ma solo fino al momento in cui quelle sue decisioni assumevano la formula sacrale dell’ordine.

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Lo Speer che a guerra ormai persa si oppone alla distruzione delle centrali elettriche e delle dighe, vista inutile la discussione chiede formalmente: “Me ne dia l’ordine”. L’ordine indiscutibile rientrava nella essenza del nazismo, nel Führerprinzip, l’obbedienza cieca al capo provvidenziale. A questi ordini fu sacrificata l’armata di Von Paulus a Stalingrado e quella di Guderian in Lituania da cui avrebbe potuto ritirarsi via mare. Nella follia hitleriana la morte era una grande pareggiatrice: colpiva tutti, non tedeschi e tedeschi.

Quattro alti ufficiali per ordine di Hitler vennero fucilati per non aver eseguito il suo ordine di far saltare il ponte di Remagen per cui passarono i carri armati americani. Hitler non si era ricordato che due giorni prima aveva dato un altro ordine, di evacuare sull’altra sponda del Reno tutta la popolazione civile. L’ordine indiscutibile non esclude la colpa, i grandi capi nazisti processati a Norimberga non sfuggirono l’accusa e la condanna con quella giustificazione. Il secondo quesito: è possibile fare giustizia cinquantadue anni dopo, quando l’uomo che si processa non è più né fisicamente né mentalmente colui che commise il delitto?

Il processo Eichmann come questo di Priebke: dicono che in questi nazisti il mutamento fisico corrisponde di rado a un mutamento mentale e caratteriale. Durante l’interminabile processo Eichmann non lo si sentì dire una parola di pentimento. Si interessava unicamente alla precisione di quella ricostruzione del genocidio: il numero esatto dei treni diretti ai campi di sterminio e, con rammarico di burocrate, gli errori commessi, come un grande zelante capostazione. Neanche Priebke è sembrato pentito.

Entrambi appartenevano alla ineluttabilità tedesca della organizzazione spontanea. Ne ha scritto Albert Speer: “C’erano nella cancelleria e nel comando supremo dei gerarchi che stavano chiusi nei loro uffici senza far niente. Sicuri che fuori la macchina organizzativa tedesca sarebbe andata avanti da sola”. Sulla questione temporale si possono ripetere per Priebke le ragioni già dette per Eichmann. Il processo è necessario perché la gente non dimentichi, perché non si diffonda un revisionismo che mette in discussione addirittura la soluzione finale. Ma da noi è stato necessario anche come rendiconto.

Agli italiani i rendiconti non piacciono, non saranno forse dei cattolici praticanti ma sono imbevuti di cultura cattolica, la cultura delle confessioni e dei perdoni, delle indulgenze e degli oblii. Un rendiconto preciso nella nebbia delle amnistie e dei condoni, una presa di coscienza che quel grande crimine c’è stato e che in molti anche pastori d’anime hanno cercato di non vederlo.

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Il terzo quesito è: perché Kappler, Priebke e gli altri esecutori della strage cercarono di nascondere, di far dimenticare una rappresaglia ordinata proprio come lezione del terrore? Qui si è a uno dei misteri del nazismo, forse dovuto all’estrazione sociale dei dirigenti. C’era nei quadri del partito una sorta di schizofrenia fra un nichilismo che non arretrava di fronte alla distruzione del mondo e un perbenismo piccolo borghese di cui erano custodi le donne, ma rispettato anche dagli uomini. I gauleiter che approvavano senza discutere tutti i sacrifici per la guerra e per gli armamenti insorsero compatti quando da Berlino li si invitò a impiegare le donne nella produzione. Con un motivo moralistico: la promiscuità fra operai e operaie avrebbe rovinato le virtù delle spose e delle madri tedesche. E le donne rimasero a casa. Questa schizofrenia arrivava al punto di tener nascoste alcune scelte decisive del nazismo, come la soluzione finale. Hitler aveva svelato le sue intenzioni in un discorso del ‘39 ma sulla esecuzione taceva. Quelli della sua corte a Berlino e all’Obersalzbergnon lo sentivano mai pronunciare la parola ebreo nei suoi interminabili monologhi. Il silenzio sulle Ardeatine per un rispetto opportunistico verso la Santa Sede? La preoccupazione di Kesselring di non incoraggiare il reclutamento delle formazioni partigiane? Silenzio anche sulla strage di Marzabotto, come se il terrore, la violenza fossero sempre seguiti da un sentimento di vergogna, di sentirsi esclusi dalla comunità degli uomini civili.

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