NUR-SULTAN (KAZAKISTAN). Un regime spaventato è un regime imprevedibile. Se si sente minacciato, risponde in modo scomposto, drastico, spesso violento. Un regime spaventato, qual è oggi quello kazako che conta almeno 164 cadaveri per strada, tra cui tre minorenni, 2.200 feriti in ospedale e seimila persone in carcere dopo una settimana di rivolte, non esita ad annichilire la propria capitale con un coprifuoco da tempi di guerra, e con l’oscuramento dell’intera Rete. Nur-Sultan, capitale politica e amministrativa del Kazakistan, è una città cristallizzata al pomeriggio del 5 gennaio, quando nella lontana Almaty hanno preso a sparare ad alzo zero e al popolo sono arrivati gli sms con le draconiane misure del presidente Kassym-Zhomart Tokayev.
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Xhanna scorre sul telefonino quei messaggi. “Il primo diceva che da lì in avanti avremmo ricevuto le informazioni corrette su quanto stava avvenendo solo via sms, perché Internet era stato spento”. La centralizzazione dell’informazione, prima mossa per ridurre la stampa a megafono di parte. “Col secondo hanno detto agli imprenditori che avrebbero fatto di tutto per ristorare chiunque stesse perdendo soldi per colpa dei disordini. Col terzo, venerdì, ci hanno avvertito che il presidente avrebbe tenuto un discorso alla nazione dalla televisione pubblica”.
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Xhanna, 24 anni, dipendente di una compagnia di prodotti elettrici che lavora molto nell’export con la Cina, tentenna un attimo prima di passare al quarto messaggio mandatole dal suo governo. Intabarrata in un giaccone pesante per proteggersi dai – 15 gradi dell’inverno di Nur-Sultan, sbuffa attraverso la mascherina. “È una lista di sette siti web che la White House (i kazaki chiamano il palazzo presidenziale Casa Bianca, come negli Stati Uniti,ndr) ha lasciato accessibili, perché li ritiene affidabili”.
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Il regime è riuscito nel suo intento, va detto. Nella capitale cristallizzata nessuno ha ben chiaro che cosa sia successo negli ultimi sette giorni e a nessuno pare interessare veramente, se non per i disagi dello stato di emergenza dichiarato fino al 19 gennaio: coprifuoco dalle 23 alle 7, una finestra di accesso a Internet di appena quattro ore (dalle 9 alle 13), il limite a diecimila tense (circa 20 euro) al contante prelevabile al bancomat, la chiusura di molti negozi e ristoranti, blindati dell’esercito a presidiare le arterie urbane principali dell’aeroporto internazionale Nur-Sultan Nazarbayev”, intestato al “padre della patria” come molti altri palazzi e musei. La stessa capitale porta il nome dell’autocrate 81enne che è stato padrone indiscusso e indiscutibile della politica kazaka per trent’anni, fino al passaggio di consegne del 2019. E il cui ruolo, in una crisi inaspettata che tutt’ora rappresenta un enigma da sbrogliare, va ancora capito.
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Qualcuno tra gli analisti internazionali azzarda ipotesi che si sia trattato di un tentativo di golpe, un regolamento di conti tra élite di potere. Una faccenda interna, dunque, che ha portato all’arresto del capo dei servizi segreti Karim Masimov per alto tradimento e alla defenestrazione di personaggi chiave della vecchia guardia.
Così come è di duplice lettura l’intervento della 45esima Brigata, le forze speciali russe, per sedare la rivolta, reso possibile dal Trattato di sicurezza collettiva stipulato tra Mosca e le ex Repubbliche sovietiche nel 1992. “Se Tokayev ha ritenuto di attivare per la prima volta il Trattato, si vede che aveva buoni motivi per farlo”, dice svogliatamente Aizhan, 38 anni, a passeggio col marito. “Mi fido del governo, perché dovrebbe preoccuparmi la presenza russa? Sono i nostri vicini, sanno quello che fanno”. Insieme al marito, sono una delle poche coppie che si incontrano sulla piazza innevata dominata dalla Bayterek, la torre più riconoscibile della riva sinistra del fiume che taglia in due la gelida Nur-Sultan. “Ordinare alle forze dell’ordine di sparare a vista ai ribelli in effetti è stato esagerato, non lo nego…”, è il massimo grado di critica alla gestione Tokayev che si ricava.
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Gli Stati Uniti sono meno entusiasti di Aizhan. Guardano con inquietudine alla presenza delle truppe russe in Kazakistan, che rappresentano la parte più consistente dei 2.500 militari inviati dai Paesi alleati a proteggere i palazzi strategici. Il segretario di Stato Antony Blinken condanna il modo virulento usato per reprimere il dissenso. E, alla vigilia di una settimana cruciale per la geopolitica dell’Europa orientale con il caso Ucraina sull’agenda dei vertici diplomatici di Ginevra e Bruxelles, sintetizza con una battuta il pensiero di Washington: “La storia recente insegna che una volta che i russi sono a casa tua è molto difficile convincerli ad andarsene”.
Mosca ribatte di non avere invaso nessuno, di essere stati chiamati. È vero. Ed è uno dei misteriosi snodi dell’enigma kazako. Cos’è accaduto veramente nelle 48 ore di sangue ad Almaty, tra il 4 e il 5 gennaio, quando la pacifica protesta per il rincaro dei prezzi del gpl nelle regioni dell’Ovest si è tramutata in guerriglia urbana nella capitale economica del Kazakistan? Perché quel repentino ingaggio del Trattato di difesa collettivo, mai attuato prima?
In pubblico Tokayev ribadisce la sua versione, che a Nur-Sultan, dove è quasi impossibile accedere a media indipendenti e fonti non statali, pare abbiano digerito. È quella che vuole il Paese sotto attacco di “ventimila banditi e terroristi”, molti provenienti dall’estero e guidati dall’esterno, “in contatto tra loro via radio”, che hanno eletto Almaty a teatro di un piano sovversivo organizzato. Una ricostruzione che, fondata o meno che sia, serve a Tokayev ad allontanare dal deep state dello Stato kazako la genesi della rivolta. Il cui incipit, va ricordato, è stato non violento: la manifestazione di piazza della città di Zhanaozen, durata due giorni.
Yevgeniy Zhovtis, direttore del Kazakistan International bureau for human rights, ha un’idea differente.
“Ad Almaty – ha spiegato in un’intervista a OpenDemocracy – abbiamo assistito alla fusione di quattro diversi gruppi. Il primo era composto da cittadini pacifici, stanchi del carovita. Il secondo comprendeva elementi più politicizzati, di opposizione. Un terzo gruppo era fatto da giovani marginalizzati delle periferie e dei villaggi. Infine c’erano i veri violenti, frange islamiste e criminali infiltrati che hanno messo a ferro e fuoco Almaty, Taraz e Shymkent”. Se Zhovtis vede giusto, sono loro ad aver appiccato l’incendio al municipio di Almaty e ad aver devastato l’aeroporto. E a loro appartiene l’armeria mostrata ai telegiornali della sera, l’ultimo di una serie di sequestri della Guardia Nazionale. Venticinque pistole Makarov, cinque kalashnikov, diversi fucili a canne mozze, cinquecento proiettili. Mentre a Nur-Sultan cerca disperatamente un servizio wifi funzionante, ad Almaty i soldati kazaki aiutati dai russi punteggiano il centro con decine di check point. Ma in città si sente ancora sparare.